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Il mondo di una comunità nella processione dei Misteri

"Nella processione dei Misteri si riflette un'antica pietà popolare che rinvia a credenze miracolistiche e a pratiche ancestrali di una comunità. Da San Pietro, che non fa buona guardia del vino, alla Veronica, che propizia il ritrovamento di tre chili di agnello, da Cristo alla colonna, che moltiplica la cera, ai bambini, che oscurano il Calvario, tutto in questa processione concorre ad esprimere i misteri di un popolo".

Ne ha parlato la prof.ssa Dina Lacalamita Nuzzi in un articolo che si ripropone integralmente. (Nuovi Orientamenti,  Anno XI, [1989] n. 1,2).
Buona lettura

 

Gesù Bambino gettato fra le braccia della madre
In occasione della festa veniva, dunque, attuato un «maritaggio», cioè veniva donato il corredo o la «dote» ad una ragazza sorteggiata fra le zitelle orfane di Modugno; per lo stesso valore si donavano delle camicie ai poveri. Doveva essere molto importante, in quei tempi, per una ragazza avere la dote, non solo per disporre di un minimo di biancheria che servisse per dar vita alla famiglia che si andava formando, ma anche per potersi semplicemente sposare!
Fin qui l’aspetto caritativo della festa che oggi non si celebra più. Ma vediamo come si esplicava la consuetudine culturale e religiosa: la processione partiva dalla chiesa di Sant’Agostino verso la Matrice o chiesa dell’Annunziata c, mentre il predicatore ufficiale faceva il discorso sulla Passione, si bussava, si entrava e il Cristo veniva «buttato» fra le braccia della Madre. La drammaticità di tali gesti e l’emotività che da essi scaturiva sono da accostare a quelle offerte dalla processione dei Misteri, che si svolgeva esattamente la settimana successiva e che si svolge ancor oggi, mantenendo viva una tradizione secolare.

Rivive la storia della processione dei Misteri
Fra le innumerevoli forme ed espressioni di religiosità popolare, quella dei Misteri è la più vicina a quelle sacre rappresentazioni che, nel Medioevo, ebbero grande sviluppo e risonanza: un vero e proprio dramma basato su episodi della Passione, che si sviluppò in Italia con forme analoghe a quelle del stère francese, del miracle-play inglese e dell’auto-sacramental spagnolo.
Di quel periodo storico famose sono le Laudi di Jacopone da Todi, pervase da un certo disprezzo per le vanità umane, da un desiderio di patimento e di sofferenza, esasperazione della rigida regola francescana fatta propria dagli «spirituali». Si possono ancora ricordare le processioni dei flagellanti, che, sfilando per le strade, si autopunivano per espiare le proprie colpe. La stessa Via Crucis fu fatta conoscere in Italia dai pellegrini di ritorno dalla Terra Santa, giacché essi stessi avevano rivissuto il cammino verso il Calvario, fatto da Gesù Cristo. Nei secoli successivi la drammaticità degli eventi rievocati provocò il moltiplicarsi degli uffici votivi della Passione: in onore delle Santissime Piaghe, delle cadute di Gesù Cristo, del Cuore trafitto, degli strumenti della Passione, dei personaggi della Passione (Giuseppe D’Arimatea, Longino, Maria Maddalena).

Alcuni studiosi affermano che, in genere, quelle forme di religiosità sono frutto di un certo periodo storico di un popolo, con il suo grado di civilità e di maturità. Tuttavia, ci sono degli aspetti legati a preesistenti riti calendariali pagani, celebrati in occasione dell’equinozio di primavera che, come si sa, determina la Pasqua. Ad esempio, le battiture sui banchi della chiesa, dopo il Canto dei notturni del Triduo sacro, erano gli strepiti stagionali o riti stagionali di passaggio fatti per cacciare gli spiriti, e si rifacevano addirittura alla romanità classica.
È molto antica anche l’usanza di conservare la cenere per colmare i piatti che facevano da supporto alla lampada a olio dei cosiddetti «sepolcri», o per cospargere le piantine delle fave (piatto dei morti); antico è pure il gesto di fare rumori e scuotere mobili per intimidire gli spiriti. A Modugno si usa ancora preparare già dal mercoledì delle ceneri quelle piantine, tenendole al buio, affinché — senza… luce — senza l’influenza dell’azione clorofilliana che, come si sa, avviene in presenza di luce, mantengano il colore più chiaro possibile. Le piantine adornano ancora, numerose, i «sepolcri», insieme ad altre piante e fiori multicolori, ma una volta erano i fiori dei poveri.
Gli eventi della Passione non sempre hanno mantenuto un carattere di drammaticità, ma spesso hanno assunto un aspetto prettamente folcloristico e popolare. In alcuni paesi, soprattutto nell’Italia meridionale, si rappresentano gli episodi dell’incoronazione di spine (Diamante, in Calabria), la flagellazione, l’incontro di Gesù con la Madre. A proposito di quell’incontro o «Vi cuntnua»,come viene chiamata in Calabria, viene subito alla mente quello che fino al 1953 si riviveva a Modugno con la processione dell’Addolorata.

I MISTERI DI MODUGNO FRA STORIA ED ANEDDOTICA

CRISTO NELL’ORTO
Particolare vivo di questo Mistero è quello di porre accanto alla statua un piccolo ulivo a ricordo della preghiera di Cristo fra quegli alberi. La famiglia che custodisce la statua per tutto l’anno è quella di Luigi Maggi, il più anziano dei soci, al quale il compito è stato tramandato, di generazione in generazione, dal 1897. Per questa famiglia è sempre stato un grande onore custodire la statua e allestire il Mistero è già una festa.

SAN PIETRO
La statua di San Pietro, appartenente alla famiglia Trentadue, risale al 1928 e fu voluta, per devozione, da Angelo Lacalamita, detto «u cucche», al quale era apparso in sogno il santo. Detto Mistero era conservato nella casa del Lacalamita, in una nicchia chiusa da un vetro. Come era d’uso una volta, lo stesso stanzone era ingresso, cucina e talvolta anche bottega: il padrone, che vendeva vino, un giorno, verso l’alba, fu svegliato dal dirimpettaio, il quale, con voce concitata lo chiamava, avvisandolo che scorreva vino dal portone fino alla strada. Il Lacalamita, adirato, se la prese con San Pietro: «Ma cosa ti tengo a fare in casa mia se non sei buono neanche a guardarmi il vino?» Anche questo dovette sentirsi dire il Santo! Sbollita l’ira, però, la devozione e la tradizione non vennero meno e non vengono meno ancora oggi.

CRISTO ALLA COLONNA
Il Mistero, originario dell’Opera Pia, prima che fosse affidato alla famiglia Pascazio, dalla quale tuttora viene custodito, era uno di quei Santi che nessuno voleva, forse perché fra i più pesanti. Un vinaio modugnese propose a Giuseppe Pascazio di prenderselo in custodia, assicurandogli che si assumeva lui l’onere delle spese di allestimento per quell’anno: si era nel 1927.
Furono pertanto ordinati cinque quintali di cera che, a festa finita, sarebbe stata rivenduta, come d’usanza, al ceraiolo per riciclarla (economia dei tempi!). Il giorno dopo la processione, anziché trovare i cinque quintali, quanti cioè ne poteva accogliere la base della statua, se ne trovarono, con stupore di tutti, sei! Per una maggiore sicurezza si andò a pesare la cera su un’altra bilancia, ma anche questa segnò la stessa quantità. Il detto vinaio con quello che guadagnò dalla vendita della cera in eccesso, pagò tutte le spese sostenute: come dire che Cristo alla colonna si era autofinanziato! L’evento fu interpretato come segno di particolare favore celeste per il Pascazio, al quale si unirono molti ortolani che negli anni successivi si fecero promotori dell’iniziativa di allestire quel Santo… che nessuno prima voleva. Presero allora l’abitudine di adornare il Mistero con le primizie degli orti o della campagna: un fascio di cicorie, un cavolo, un ramo di mandorlo fiorito, quasi per ingraziarsi Dio affinché assicurasse un buon raccolto.

ECCE HOMO
Originario del Sacro Monte di Pietà, è da molti anni custodito dalla famiglia Massarelli e intorno ad esso si narrano diversi aneddoti. Questi, vivacemente descritti da Anna Longo Massarelli nel N. 2 – 1987 della nostra rivista, testimoniano sia la simpatica intraprendenza di chi voleva aggiudicarsi la «macchenétte de Criste a la cannèdde», sia il modo in cui veniva interpretata la volontà divina per alcune manifestazioni o fatti della vita quotidiana. Non c’era anno che non scoppiasse qualche lite, spesso provocata ad arte, per aggiudicarsi la statua, ma la tradizione alla fine veniva rispettata: era una questione d’onore poter «uscire» col Santo.

CRISTO CON LA CROCE ADDOSSO
Responsabile e custode di tale Mistero è la famiglia Vernola, ma i soci sono tanti. La statua, di legno di pero, una volta era illuminata da candele a cera, ora, invece, da luci a batteria. Da circa vent’anni è stato ammodernato raddobbo, in particolare la cupola e la colonna di legno massiccio, per cui il peso si è dimezzato: dai sette-otto quintali si è passati ai quattro attuali.

SAN GIOVANNI
Nato ad opera di tanti soci nel 1894, ora è custodito cd abbellito dalla famiglia di Pascazio Saverio. Esso fu aggiunto ai primi Misteri perché mancava la figura di quel santo tanto vicino a Gesù durante la Passione. Il Pascazio era tanto preso dall’avvenimento «du monde» che se lo sognava spesso e grande era la cura che riponeva nell’allestirlo. La presenza dei bambini, che per ex voto venivano vestiti come San Giovanni e precedevano la statua durante la processione, lo faceva adirare, giacché la gente finiva per guardare più loro che il santo!

IL CALVARIO
Il Mistero di Cristo in croce fa capo alle famiglie soprannominate rispettivamente «la mècce» e «Ombrelle», Cavallo e Ruccia, ma ci sono tuttora diversi altri soci. La prima statua del Calvario con la Maddalena ai piedi, voluta dal Sacro Monte di Pietà, fu sostituita con la nuova ai primi del novecento: autore un leccese. Nel 1914 la statua subì un grosso danno a causa del tarlo e fu chiamato un austriaco per il restauro: il legno fu ridipinto e l’intervento in tutto venne a costare cinquantotto lire. Una volta lo squilibrio del peso provocò la lussazione dell’omero a Edoardo Romita, quando la processione dovette affrontare una cunetta. Per questo ed altri motivi, fra cui il deperimento, la croce, tanto alta, fu rifatta nel 1956 e, sotto la nuova, fu posto un ceppo di ulivo, quasi ad indicare il Monte Calvario. A proposito del Calvario si racconta di un modugnese che, per un ex voto, donò cinquecento lire di carta che il Cristo portò legata al braccio per vent’anni. Negli anni Trenta la cifra doveva avere un valore considerevole e sicuramente avrebbe potuto far fruttare un interesse economico notevole, ma anche questo era un modo per manifestare la propria devozione.

CRISTO MORTO, OVVERO LA “NACHE”
È un Mistero che ha origine dall’Opera Pia e conta venti soci che si tramandano l’adesione di padre in figlio: il più anziano è Domenico Lacalamita. La statua origina ria, sostituita nel 1952, è custodita nella chiesetta di Sant’Anna e reca incisi i nomi dei soci fondatori. L’addobbo floreale, molto semplice, è ogni anno costituito da garofani bianchi e rossi. Segno particolare che accompagna questo Mistero è il dolore e il silenzio manifestato dalle donne che, vestite a lutto, formano un cordone intorno alla «nache», termine dialettale, molto suggestivo e colmo di tenerezza, che indica la culla.

LA VERONICA
È di proprietà di diversi soci fondatori, il più anziano dei quali è Antonio Longo. Il Mistero nacque, per così dire, nel 1931, il giorno del Venerdì Santo, quando un gruppo di amici decise di «fare un santo». Essi si recarono da un’anziana donna modugnese per essere consigliati (Quanta stima e fiducia nella saggezza dei vecchi!). La scelta cadde sulla Veronica che mancava nella processione «du monde». Ciascuno di quegli amici da quel giorno fece sacrifici per risparmiare e mettere da parte i soldi necessari per comprare la statua: quattrocento lire. Dopo sei mesi, la consegna. Nel 1933 fu allestita anche la base; queir anno la Veronica «uscì» per la prima volta, e furono i devoti ad offrire i fiori. Molti anni dopo, la cupola fu eliminata per il peso. Anche la Veronica come molte altre statue più nuove fu prodotta da una ditta leccese: la «Giuseppe Manzo».

L’ADDOLORATA – LA PIETÀ
La società costituita intorno a questo Mistero è formata da ventiquattro soci e l’adesione viene tramandata di padre in figlio. La famiglia che ne cura la custodia e l’allestimento è quella di Giuseppe Corriero. «Vestire la Madonna» è un rito che ogni anno si ripete con grande devozione: il mercoledì santo si preleva la statua dalla chiesetta di Santa Lucia e le si cambiano camicie e vestiti «vecchi» con quelli «nuovi». Guardando da vicino quei gesti si può toccare con mano l’umiltà e la gioia di chi li fa: non si può nascondere una certa emozione nell’osservare il viso della statua così piccolo ma espressivo nel dolore e quella figura così esile e smarrita nel pur capace vestito nero. Il viso della statua è quello originale del Monte di Pietà, come pure l’aureola, il pugnale d’argento, il busto e le camicie, mentre sono stati rifatti il vestito di pizzo e la base che reca la data del 10 febbraio 1953. L’angelo che sovrasta la statua e che reca nelle mani un fazzoletto col volto di Cristo, è originale del Monte di Pietà ed è custodito dalla famiglia Tricarico. Nel corso di tanti anni i devoti hanno donato gioielli in oro per grazie ricevute: quell’oro fuso è stato usato per forgiare un nuovo pugnale ed una «M», lettera iniziale di Maria.

LE TRE MARIE E LA DEPOSIZIONE
I due Misteri sono nati insieme nel marzo del 1946, il primo per desiderio di Tommaso Lomoro, il secondo per la devozione di quattro fratelli: Giuseppe, Agostino, Antonio e Filippo Corriero. Si era nell’anno 1945: il Lomoro insieme con i Corriero, decisi nella propria scelta, intrapresero il viaggio verso Lecce, diretti alla ditta «Manzo» per ordinare la statua. Ad un chilometro da Bari, sulla strada, trovarono un involto pieno di tre chili di carne d’agnello, probabilmente smarrito da «ne trainière» (un conduttore di traino) che li precedeva. Dati i tempi assai magri, quello fu un vero ben di Dio! La cosa fu interpretata da tutti come segno di prosperità e benessere. In modo particolare per il Lomoro, la scelta di allestire un Mistero nascondeva un segreto desiderio: avere un figlio. Ebbene, a distanza di un anno da quel viaggio, quando doveva «uscire» il Santo per la prima volta, in casa sua nasceva una bambina, tanto desiderata! Le statue delle Pie Donne costarono trentaduemila lire. Esse sono custodite attualmente nella chiesa delle Monacelle. Durante il colloquio con il Lomoro è emerso un grande desiderio di vedere restaurata questa chiesetta e quella di San Vito; quest’ultima sicuramente ha avuto molta importanza nella storia della processione dei Misteri, in quanto prima sede della Associazione caritativa Opera Pia del Sacro Monte di Pietà. Accanto ad essa infatti sorgeva l’ospedale, unico ricovero per i malati poveri modugnesi.

LA MADDALENA
Voluta da Paolo De Benedictis, deceduto poi durante la seconda guerra mondiale, è stata, dal 1956, allestita sempre dalla stessa famiglia con grande cura e devozione. Negli ultimi anni è stata affidata a Raffaele Falagario. È da ricordare che il vecchio Mistero del Calvario aveva la Maddalena ai piedi: di quest’ultima si prendeva personalmente cura una certa Anna Cavallo, moglie di Giacinto D’Aprile. La donna pettinava i lunghi capelli biondi e vestiva la statua: era un rito che si ripeteva ogni anno per un ex voto.

IL LEGNO SANTO

Negli anni Cinquanta la piccola scheggia della Croce della Passione di Cristo fu donata, con documento di autenticità, alla Parrocchia di Sant’Agostino dalla contessa Ricciardella. Nel 1964 per la prima volta i giovani della parrocchia portarono a spalle il Legno Santo, ma da alcuni anni esso viene portato fra le mani dal sacerdote che accompagna la processione.

SPIGOLANDO FRA I MISTERI
Durante la processione del Venerdì di passione, davanti ad ogni Santo portato a spalle, si possono notare dei ragazzini provvisti di mazze: queste sono fornite di ganci che servono ad appoggiare le assi delle basi, dando modo così ai «portatori» di riposare o di procedere al cambio, durante le fermate. È anch’essa una consuetudine che pare ancora viva e abbastanza sentita dai piccoli. Dagli ultimi anni dell’Ottocento fino ai primi decenni del Novecento le manifestazioni del Venerdì Santo erano e, in parte sono, ancora svolte in costume: alcuni usavano vestirsi con gli abiti della confraternita religiosa alla quale appartenevano, ma ciò poi cadde in disuso. Reminiscenza di quell’abbigliamento è la «scazzétte», piccolo copricapo nero di velluto, spesso impreziosito di ricami scintillanti, simile a quello ebraico. Negli ultimi anni anche la «scazzétte» è andata in disuso. Per alcuni partecipanti sono rimasti i guanti, la cravatta e l’abito nero, che sono d’obbligo per quei Misteri ritenuti più seri. Una nota di colore è data dai bambini che si usa ancora mandare vestiti da piccoli santi, a seconda di quello scelto per grazia ricevuta.
Come ogni processione, anche «u monde» si snoda con un incedere lento e cadenzato che conferisce ad ogni Santo un’aria solenne, ma che talvolta, quando è accentuato, può essere interpretato come fanatismo. Probabilmente quel modo di spostarsi è reso necessario dal ritmo da rispettare per sopportare meglio il peso e sostenerlo all’unisono, Inoltre, quei movimenti lenti e ritmici dovevano servire nei tempi antichi a scuotere l’animo dei peccatori e ad incitarli a ravvedersi e convertirsi.

IL RISCHIO DEL DESERTO
Molto è stato scritto e detto sulla religiosità popolare e sui modi di manifestarla da parte di studiosi appartenenti alle più disparate aree culturali. Non manca il punto di vista cattolico: la chiesa, infatti, proprio negli ultimi tempi ha rivolto una certa attenzione al problema della religiosità popolare.

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Il mondo di una comunità nei Misteri

La pietà popolare nella Settimana santa

Riproponiamo una riflessione sulla "Pietà popolare nella Settimana Santa" tratta dall'archivio storico della nostra rivista, pubblicata nel 2003 (Anno III, n. 2 - Maggio 1981) a firma del prof. Raffaele Macina.
Buona lettura
mp

Non c’è dubbio che la Settimana Santa sia il momento più ricco ed intenso non solo di riti liturgici canonici, ma soprattutto di pratiche e culti ideati o semplicemente conservati dal popolo che, a dispetto del tempo, riversa in essi tanta parte della sua mentalità di lunga durata. Ed in effetti, nonostante sia stata denominata diversamente a seconda della sensibilità del momento storico (“Settimana grande o maggiore”, “Settimana d’indulgenza”, “Settimana di fatiche e di stenti”, “Settimana ultima” ed infine “Settimana Santa”), sempre essa ha visto una straordinaria partecipazione di popolo.
Il venerdì di passione, che precede la Domenica delle Palme, preannunzia la tragedia di Cristo con la processione dell’Addolorata, che rinnova l’eterno peregrinare della madre alla ricerca del figlio perduto. Un triste presagio non manca neppure nella domenica del trionfo, quando Gesù, già acclamato dalla folla, piange su Gerusalemme.
Molte le usanze della Domenica delle Palme che ancora oggi si rinnovano: in alcuni centri agricoli non mancano contadini che, dopo il rito religioso, si recano nei campi e, come atto propiziatorio, piantano la palma appena benedetta; radicato è ancora il pregiudizio che chi distrugga una palma benedetta sarà colpito da sicura disgrazia.
A Taranto, proprio il giorno delle Palme, si svolgono due aste per l’aggiudicazione dei santi da portare in processione: nell’oratorio della chiesa di S. Domenico si celebra la gara per l’aggiudicazione della Madonna Addolorata; nel palazzo della Provincia vengono contese le statue della processione dei misteri. Si tratta di un appuntamento solenne, al quale possono partecipare solo i membri delle confraternite di San Domenico e del Carmine che ambiscono tutti a conquistare il mistero di Cristo morto o quello dell’Addolorata.
Assai richiesta è anche la troccola, il cui suono sostituisce dopo la morte di Cristo quello delle campane: grazie ad essa, il confratello che se l’aggiudica riveste un ruolo particolare durante la processione dei misteri.
I primi tre giorni della settimana santa sono dedicati alla pulizia della chiesa, alla predisposizione del sepolcro, agli ultimi lavori per l’allestimento delle statue. Una cura singolare viene rivolta alla sistemazione intorno al sepolcro di vasi ricolmi di esili germogli di semi di grano, piantati all’inizio della quaresima e tenuti al buio. Un particolare che esprime il tipo di devozione popolare è rappresentato dai lavori di pulizia del “corpo” e di vestizione della Madonna Addolorata, rigorosamente riservati a ragazze vergini e nubili.
Tutto deve essere pronto per il giovedì santo, quando ogni fedele è obbligato a visitare sette sepolcri, numero che per la tradizione orfìco-pitagorica simboleggia il matrimonio e l’unione perfetta fra uomo e donna. Nel Salento, e in particolare nell’area della Grecia, si va recuperando negli ultimi anni un’antica tradizione, quella di “Santu Lazzaru”, sino a qualche decennio fa assai diffusa e praticata dal lunedì al mercoledì santo: gruppi di persone, per lo più composti da due giovani ed un anziano, vanno in giro e dopo aver cantato davanti ad ogni casa le strofe di “Santu Lazzaru”, tutte ispirate alle sacre rappresentazioni medievali della passione di Cristo, chiedono la questua. Diversi sono i centri pugliesi che, sempre all’insegna delle sacre rappresentazioni medievali, animano particolari versioni della Via Crucis: suggestiva quella di Ruvo, in provincia di Bari, che, con i suoi numerosi figuranti scalzi e vestiti con abiti d’epoca, avanza fra il suono cupo e sordo delle troccole.
Ma il momento culminante dei riti della settimana santa è dato dalle tante processioni dei misteri che sembrano unire le genti di Puglia in una comune atmosfera spirituale. Al proposito, è possibile scoprire in ogni paese, anche piccolo, veri e propri capolavori di arte povera e tradizioni del tutto particolari: dai 5 misteri di Molfetta ai 33 di Ceglie del Campo, dalle cinque croci di Vico del Gargano al Legno Santo di Bitonto; in ogni centro la solenne processione del venerdì santo mescola al sacro qualche aspetto profano che rinvia a leggende o a precisi momenti della propria storia.
Non c’è pugliese che non sia sensibile al fascino della processione dei misteri. Si tratta di un appuntamento a cui non si può mancare: il suo richiamo, forte e ancestrale, sospinge tanti emigrati a presentarsi puntuali il venerdì santo nei loro paesi per assistere a sera inoltrata e in alcuni luoghi anche nel pieno della notte allo snodarsi per le strade di Madonne, santi e soprattutto dei momenti della passione di Gesù che rinviano all’eterna lotta fra tenebre e luce, morte e vita.
Quello della processione dei misteri è per i pugliesi un momento di vita corale che, annullando le personali posizioni di fronte alla religione, manifesta la presenza di una radice comune; una radice antica che, a dispetto dell’opera nullificante della globalizzazione, rinvia a pratiche misteriche dell’area mediterranea e, in particolare, di quella magno-greca.
Già Plutarco, quasi 2000 anni fa, così rappresentava l’atmosfera grave e solenne delle processioni dei misteri, di ispirazione non cristiana, ancora assai diffuse nel mondo greco-romano nel primo secolo dopo Cristo: “Dapprima erramenti e giri affannosi, e in mezzo all’oscurità un vagare tormentoso e senza speranza di salvezza; quindi ogni cosa apparisce piena di dolore, di ribrezzo, di terrore, di sudore e di sgomento”.
Con quegli “erramenti e giri affannosi” si intendeva raffigurare la sofferenza di Demetra, sorella di Zeus e madre divina della terra e dei suoi frutti, che per nove giorni cerca invano la figlia rapita e involata da Plutone nell’Ade, l’eterno regno delle tenebre.
Ma Plutarco non si limita alla rappresentazione dell’atmosfera del primo momento della processione dei misteri e assai incisiva è la descrizione della fase finale: “Poscia sottentra una luce meravigliosa, ovvero accolgono lo sviato luoghi e campagne amene, piene di dolci suoni, di danze, di canti e di apparizioni belle e sacre”. Viene simboleggiata così la gioia incontenibile di Demetra che il decimo giorno non solo ritrova finalmente la figlia Persefone, ma ottiene da Zeus che ella viva nel regno delle tenebre per quattro mesi dell’anno, a partire dall’autunno, e sulla terra per i restanti otto, a partire dalla primavera.
È evidente nei due momenti delle antiche pratiche misteriche la volontà di simboleggiare l’eterno ritorno della vita e della morte e il loro continuo avvicendarsi, che è l’essenza stessa non solo del ciclo della natura e del lavoro dei campi, ma anche del destino dell’uomo che acquista significato unicamente nella prospettiva dell’immortalità. Per questo, è fondamentale aprirsi all’orizzonte dell’eternità impegnandosi nel culto di Demetra, al quale è necessario farsi iniziare per mezzo di speciali riti segreti e perciò misteriosi; riti che hanno senso solo all’interno di un gruppo o di una comunità e che, trascendendo l’intelligenza e l’uso vigile dei sensi, impongono all’individuo di abbandonarsi a precise pratiche cultuali.
Non è diffìcile scorgere ancora oggi gli echi degli antichi misteri. Un canto popolare ancora diffuso in molte zone della Puglia recita: Mo’se ne véne scevedì sande,/Madre Mari se métte u mande/e non avève che ce sci/e sóla sóla se ne partì/ e chiangéve per 1 suoi dolori/ che avéva pèrse il suo figliòle (Ora arriva giovedì santo,/ Madre Maria indossa il mantello/ e non avendo con chi andare,/ se ne partì sola sola/ e piangeva per i suoi dolori/ che aveva perso suo figlio). Come non vedere in questa immagine della ‘Madonna Addolorata che è centrale nei riti della settimana santa e nella processione dei misteri del venerdì santo il rinvio a Demetra che disperata e sola va in giro per il mondo alla ricerca della figlia?
Sino a qualche tempo fa, in alcuni centri della Murgia la processione dei misteri si dirigeva m campagna, dove m un clima di vibrante pathos la Madonna ritrovava suo figlio; la scena registrava la presenza di numerosi bambini vestiti da angeli che impugnavano panieri ricolmi di grano e di altri frutti della madre terra. Prima che la processione riprendesse la via del ritorno in città, il sacerdote benediceva i campi e le messi appena spuntate.
Ecco, l’essere membro di una comunità di iniziati ai riti misterici significava, e forse significa ancora oggi, non solo introiettare immagini che hanno un grande potere simbolico, ma essere convinti di meritare un lieto avvenire dopo la morte. Di riflesso, per i non iniziati si apre invece un destino di dannazione ad una pena eterna.
E forse ancora oggi, a proposito del radicamento delle processioni del venerdì santo, così capillarmente diffuse nei centri pugliesi, si potrebbe ripetere quanto afferma Sofocle: “Tre volte felici quei mortali, i quali hanno contemplato questi sacri riti, allorché tocca loro di scendere nell’Ade; per essi soltanto esiste nel mondo di là una vita, per gli altri non v’hanno che affanni e pene”.Non è diffìcile, dunque, riconoscere nello snodarsi lento e solenne delle processioni del venerdì santo le influenze delle pratiche misteriche assai diffuse nell’area magno-greca: siamo di fronte ancora oggi a riti serali e/o notturni che si svolgono fra il chiarore delle fiaccole e gli esaltamenti prodotti dalla musica; e, d’altra parte, i contenuti riguardano ancora la storia e la vita della divinità celebrata, in particolare le sue sofferenze, la sua morte e il suo eterno ritorno.
Ma, forse, il dato che conferisce alle nostre processioni dei misteri quel fascino che sempre si rinnova è legato al paradosso di un Dio che accetta di svuotarsi: Cristo, “l’unto del Signore”, si è spogliato della sua divinità e si è rivestito della natura umana, condividendone le gioie, le pene e persino la morte. Amare un “Dio impotente”, condividerne la parabola umana, riconoscere il dolore e le sofferenze come segni di identificazione della sua e, ancor più, della nostra vita sembrano essere i tratti caratterizzanti del venerdì santo.
Ed ecco, allora, quel pathos vibrante che accomuna le due ali di popolo mentre la processione, avanzando, rievoca e rinnova l’eterna passione del Dio impotente, dalla quale ogni uomo attinge nuova linfa per affrontare la sua quotidiana passione.
In effetti, in tutte le processioni del venerdì santo, che ancora oggi si svolgono nei numerosi centri della Puglia, sono immancabili quelle statue che ripropongono i momenti più salienti della divina tragedia: Cristo nell’orto del Getsemani che sperimenta la solitudine e l’abbandono persino del “padre suo”; San Pietro, ora assai contrito per aver rinnegato tre volte il maestro; Cristo flagellato alla colonna; la Maddalena e la Veronica, capaci di un gesto di solidarietà; la “nache” (culla), tutta infiorata, di Gesù morto e, infine, la Madonna Addolorata che in diversi centri chiude il corteo.
Presente è ancora la Croce con i simboli della passione: il gallo di Pietro, la lancia che trafisse il costato, l’asta con la spugna imbevuta d’aceto, la mano dello schiaffo, la scala e, infine, i più temibili strumenti di tortura: i tre chiodi, il martello e la tenaglia.
Non manca talvolta qualche bambino vestito da centurione per evocare l’età in cui fu compiuto il deicidio; un’età alla quale rinviano anche altri elementi che hanno finito coll’assumere un semplice valore simbolico. E’ il caso della bassa banda (flauto, piatti, tamburo e grancassa) con la quale si apre dappertutto la processione dei misteri: si intende così richiamare la pratica di Roma imperiale di far precedere sempre un corpo militare da tamburi e trombe. E, appunto, fu proprio una coorte romana, guidata da Giuda, a catturare Gesù nel Getzemani.
Ma, al di là della rievocazione, lo snodarsi della processione dei misteri offre oggi una occasione salutare e irripetibile nell’anno: in queste nostre città in cui il traffico finalmente tace del tutto e la stessa illuminazione pubblica è inibita per qualche ora, è possibile rivivere la dimensione del silenzio, da sempre propedeutica alla riscoperta della propria interiorità.
E, dopo i misteri, ecco prepotente il trionfo della vita, ecco il recupero, sempre più forte negli ultimi anni, de la scarcédde, questa specie di ciambella antica, adornata di un numero dispari di uova, che la ragazza nubile confezionava con le proprie mani e regalava con intento benaugurale al suo promesso sposo il dì di Pasqua.

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[2003] Pietà popolare nella settimana Santa

Buon anno 2023

La rivista “Nuovi Orientamenti” augura ai propri lettori, nonché a tutta la cittadinanza, gli auguri più sinceri per un sereno anno nuovo, sperando che possa portare pace e serenità.
Il 2023 lo dedichiamo a Tommaso Di Ciaula, con l’intento di richiamare l’attenzione sulle sue opere, così come è stato fatto con la pubblicazione del libro “Tommaso Di Ciaula tra fabbrica e poesia” a cura del prof. Serafino Corriero (Edizioni Nuovi Orientamenti, Modugno, 2022 pp. 175).
Buon anno a tutti

mp

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Balsignano

Con questa prima «monografia» si introduce, nel nostro sito internet, la rubrica «Rassegne tematiche» dove saranno pubblicate le raccolte degli articoli riguardanti argomenti di particolare interesse.
La prima non poteva che riguardare il Casale di Balsignano, a conferma dell’attenzione che da sempre «Nuovi Orientamenti» riserva al sito archeologico, con l’instancabile impegno del prof. Raffaele Macina, direttore della rivista.
Lo scopo di tale iniziativa è duplice: da un lato non disperdere il prezioso lavoro dei redattori attraverso la digitalizzazione dei rispettivi contributi con l’archiviazione elettronica nel sito internet, dall’altro fornire ai lettori un riferimento unico per una più agevole consultazione nel tempo.
Sono in programma altre rassegne su argomenti diversi, come le nostre tradizioni, affrontate nell’ambito della rubrica «A Medugne se disce adacchessè», e sulle le nostre radici, in relazione alle quali ci si soffermerà anche sui personaggi modugnesi che in ogni tempo, ciascuno in relazione alle proprie specificità e competenze, hanno dato prestigio alla nostra città.

marco pepe

Modugno, agosto 2022

Balsignano, 2022.08

A MEDUGNE SE DISCE ADACHESSÈ

La rubrica “A Medugne se disce addacchesse (parle kome t’à ffatte màmete)” della nostra rivista, fu inaugurata con la pubblicazione n. 2 (Dicembre 1979), con un articolo del prof. Raffaele Macina.
Il tentativo fu quello di fissare, sulla base della consultazione di una specifica bibliografia, alcune nozioni e princìpi fonetici e ortografici, necessari per leggere e trascrivere il nostro dialetto.
Nel tempo questo progetto ha determinato, anche e soprattutto, il recupero di un ricco patrimonio culturale che, in gran parte, è stato possibile grazie alla ricerca costante di Anna Longo Massarelli, e di molti altri collaboratori della rivista, che hanno manifestato un profondo interesse per la nostra cultura popolare.
La monografia di 447 pagine, composta da 195 articoli, è strutturata con un indice generale per consentire una più agevole consultazione degli argomenti di maggiore interesse.
Credo non sia necessario aggiungere altro, se non un caloroso grazie per l’attenzione, con l’augurio di una buona lettura.

marco pepe

Modugno, ottobre 2022

A Medugne se disce adachessè, 2022.10

GLI EDITORIALI

Dopo quelle su “Balsignano” e “A Medugne se disce addacchesse (parle kome t’à ffatte màmete)” eccoci arrivati alla terza monografia riguardante gli editoriali pubblicati dal 1979, anno di fondazione della rivista “Nuovi Orientamenti”, fino all’ultimo numero del 2022. (Anno XLIV n. 180).
In questi quarantaquattro anni di attività gli editoriali hanno fornito numerosi spunti di riflessione su argomenti di importanza significativa, riguardanti la vita politica e sociale di Modugno, e non solo.
Sono state affrontate le vicende di Palazzo Santa Croce, attraverso le diverse Amministrazioni che si sono succedute, le interviste ai sindaci, la parentesi della Gestione Commissariale, le campagne elettorali, la questione dell’Ospedale Civile, gli avvenimenti del bicentenario 1799, e molto altro ancora.
Gli articoli a firma del prof. Serafino Corriero e del prof. Raffaele Macina, ai quali va il nostro ringraziamento, costituiscono un patrimonio della rivista che si è ritenuto giusto condividere con quanti vorranno ripercorrere gli eventi che ormai costituiscono la storia della nostra Città.
Come sempre un caloroso grazie per l’attenzione e, soprattutto, buona lettura.
marco pepe

Editoriali [1979-2022]

Pubblicato ultimo numero della rivista “Nuovi Orientamenti” n. 180 Novembre 2022

È stato pubblicato il nuovo numero della rivista «Nuovi Orientamenti». Si coglie l’occasione per invitare, coloro che non l’avessero ancora fatto, a rinnovare la quota annuale per il 2023 che, anche quest’anno, rimane invariata: € 25,00 per quella normale ed € 50,00 per quella sostenitrice (nel qual caso 25 euro saranno considerati come sottoscrizione per il Millennio).Si può effettuare il rinnovo attraverso il bollettino postale; tramite bonifico bancario utilizzando le seguenti coordinate: BANCO POSTA, intestato a Nuovi Orientamenti, codice IBAN: IT58 U076 0104 0000 0001 6948 705; presso la cartolibreria “La Bottega del libro” (Piazza Sedile, 11), presso il Centro Fotocopie di Francesco Caporusso (Piazza Sedile, 29).
E’ anche possibile contattare un rappresentante di «Nuovi Orientamenti» e fissare un incontro, telefonando ai seguenti numeri: 3284475397 (Raffaele Macina), 3334916861 (Anna Camasta), 3355915842 (Marco Pepe);
Di seguito la copertina del nuovo numero della rivista con l’evidenza del rispettivo sommario.

Buona lettura.

Tommaso Di Ciaula, fra fabbrica e poesia

“TOMMASO DI CIAULA FRA FABBRICA E POESIA”
Il quarto libro della nostra collana “I libri del Millennio”
Ieri abbiamo consegnato in tipografia tutto il materiale per la pubblicazione del libro su Tommaso Di Ciaula, il nostro poeta-scrittore che ha fatto conoscere il nome di Modugno in tanti Paesi del mondo.
Il libro, curato dal prof. Serafino Corriero, offre un quadro completo della personalità di Tommaso. Gli interventi di critici letterari italiani e di diversi Paesi europei (Inghilterra, Francia, Germania) offrono interpretazioni assai interessanti su Tommaso; vi sono, poi, numerose testimonianze sull’autore di “Tuta blu” di grandi personalità della cultura e della società italiana: Leonardo Sciascia, Italo Calvino, Luciano Lama, e tanti altri ancora.
Il Libro sarà dato in omaggio ai soci-abbonati di “Nuovi Orientamenti”, che abbiano versato la quota annuale per il 2022 o a quelli che, eventualmente, vogliano abbonarsi per la prima volta quest’anno.

venerdì 7 ottobre 2022

L’omicidio, a Modugno, di Giuseppe Lacalamita

La sera del 23 settembre del 2002 Beppe Mangialardi, ragioniere di 30 anni, e la fidanzata, che sarebbe diventata sua moglie nel 2003, si trovavano lungo una strada di campagna a Modugno per vedere in privato i fuochi d’artificio della Festa Patronale: proprio qui la ragazza ha visto il suo compagno morirle davanti cercando invano di difenderla. La rivista «Nuovi Orientamenti» si è occupata del vile omicidio attraverso un interessante editoriale a firma del prof. Serafino Corriero, pubblicato nel numero n. 105 del mese di Ottobre 2002 (Anno XXIV) che si ripropone integralmente.
mp
Anno XXIV N. 105 Ottobre 2002
Serafino Corriero
Editoriale

L’uccisione del rag. Giuseppe Lacalamita, avvenuta la sera del 23 settembre (festa di S. Nicola da Tolentino) nel corso di un tentativo di rapina ad opera di tre Albanesi residenti a Modugno, è un avvenimento che ha scosso profondamente la comunità cittadina, e che quindi ci obbliga a qualche riflessione che vada al di là dell’ambito puramente criminale nel quale esso è maturato. È evidente che episodi di tale portata vadano innanzi tutto inquadrati in fenomeni generali, o addirittura epocali (le grandi migrazioni di massa) che caratterizzano il tempo in cui viviamo, ma questo non ci esime dal ricercare anche le ragioni peculiari e le condizioni specifiche che innescano o alimentano fenomeni gravi di devianza o di criminalità organizzata. Anche perché, di fronte a questi fenomeni, una comunità, piccola o grande che sia, tende istintivamente (e sbrigativamente) a rinchiudersi in sé, individuandone le responsabilità solo in fattori ad essa esterni, che siano sopraggiunti ad “inquinare” la propria presunta purezza ed innocenza.

Una prima considerazione intorno a questo tragico evento ci viene suggerita da una scritta razzistica apparsa nella villa comunale (“Da Durazzo a Tirana tutti figli di puttana”). Essa rivela il tentativo – piuttosto maldestro, in verità, ma da non sottovalutare – di innescare a Modugno un conflitto con una comunità di immigrati – quella albanese – che, pur essendo la più numerosa del nostro territorio, non aveva finora dato motivi di particolare preoccupazione per la convivenza civile e l’ordine pubblico, ma che, anzi, si è nel complesso ben integrata nella nostra comunità, offrendo a tanti Modugnesi – che magari ora “storcono il naso”- lauti guadagni nell’affitto delle abitazioni (spesso squallide soffitte), braccia robuste in lavori materialmente pesanti (agricoltura, edilizia, commercio), palle ricurve in altri lavori socialmente ingrati (attività domestiche, assistenza ad anziani infermi, ecc…).

Ha fatto bene, dunque, il sindaco di Modugno, Pino Tana, a mettere subito in guardia la città dal rischio di una “caccia alle streghe” anti-albanese, ma crediamo che i Modugnesi siano abbastanza smaliziati per cedere a questa insidia, se non altro perché la nostra città è da molto tempo ormai molto poco “autoctona” e prevalentemente composta da “forestieri” di varia provenienza.

Più subdolo e pericoloso ci sembra invece un altro rischio, che, scossa da un fatto criminoso così rilevante, si insinui nella coscienza collettiva dei Modugnesi l’inclinazione a distinguere tra una criminalità “minore” normale, accettabile, o addirittura “legittima”, e una criminalità “maggiore” pregiudicata, esecrabile, e pertanto “contro regola”, nell’illusione che la tolleranza della prima ci salvaguardi dalla ferocia della seconda. Non è affatto vero, tra l’altro, che furti, scippi, piccole rapine ed estorsioni, quando non siano episodi isolati ma costituiscano – come avviene a Modugno – un contesto permanente del nostro vivere civile, siano fatti meno violenti, meno laceranti, meno angoscianti di un funesto omicidio: essi vengono ad inficiare fortemente la sicurezza collettiva, a sconvolgere la vita quotidiana di chi ne è colpito, e fra tutti, in particolare, quella dei più deboli e indifesi, i bambini egli anziani. La criminalità, insomma, non è né “micro-” né “macro-”, ma è sempre crimen, cioè dis-crimen, cioè “separazione”, anomalia, che merita di essere segnalata, giudicata e punita, nel ripetto, naturalmente, delle norme e delle finalità fissate dalla legge.

Un’altra osservazione ci sembra di dover fare in ordine a questo tema. Tutti i fenomeni criminosi, piccoli o grandi che siano, non possono essere isolati da un più ampio contesto che mette in discussione non solo i comportamenti di individui o di gruppi isolati, ma anche quelli di gran parte dei cittadini, se non addirittura dell’intera comunità. Si tratta di quei comportamenti illegali e incivili che, quando siano anch’essi socialmente diffusi, costituiscono una fonte costante di corruzione, di degrado, di deterioramento morale, sul quale s’innesta e prospera la più aggressiva criminalità.
Inciviltà, illegalità e criminalità sono insomma tre livelli di un unico edificio, direi meglio di una piramide nella quale quanto più estesa è la base (l’inciviltà), tanto più ampi e contigui sono il corpo centrale (l’illegalità) e il suo vertice (la criminalità): tre livelli non rigidamente separati, ma elastici e intercomunicanti, interdipendenti, reciproca mente condizionati. Non è un caso che i grandi fenomeni criminosi del nostro paese (mafia, camorra e loro varianti) siano concentrati nelle aree più degradate e meno vivibili di esso, là dove l’illegalità e l’inciviltà sono così diffuse da essere considerate ormai endemiche e da rimanere il più delle volte “non-crimi- nate”, non più segnalate, e quindi impunite. Chi si cura più oggi, a Modugno, di andare a denunciare ai carabinieri il furto di una bicicletta o lo scippo di una borsetta?

Nella nostra città, dunque, come del resto in gran parte dell’Italia meridionale, questo tessuto di connivenza e di connessioni con la criminalità è sempre stato abbastanza ampio, e forse oggi si va estendendo, di pari passo con il progressivo intensificarsi della congestione urbana, del degrado ambientale, delle disuguaglianze economiche, sociali, culturali. Così a Modugno, per fare qualche esempio, sembra ormai «normale» passare col rosso al semaforo, guidare il motorino senza casco, sorpassare a destra, ignorare le strisce pedonali, sostare in doppia – tripla fila davanti alle rosticcerie, depositare sulla strada contenitori e bottiglie dopo aver consumato pizza birra in auto, portare il proprio cane a fare i suoi bisogni davanti alle case altrui, scaricare in periferia rifiuti di ogni tipo (inciviltà), oppure affittare una casa «in nero», non pagare i contributi ai dipendenti, non esporre i prezzi in vetrina, costruirsi una stanza in più, abbattere la facciata di un edificio storico (illegalità); per non parlare, infine, di quelle situazioni “legittime”, ma non per questo meno intollerabili, come le antenne e i ripetitori in pieno centro, i complessi edilizi abnormi, le nauseanti puzze quotidiane, le colonie di cani randagi e aggressivi.
Questi ed altri simili comportamenti (da alcuni dei quali neppure chi scrive pretende di essere esente) sono qui da noi così diffusi e ormai accettati che, quando ci rechiamo in altre regioni del centro-nord d’Italia, o in altri paesi europei, restiamo come stupefatti e quasi disorientati di fronte all’ordine, alla pulizia, al rispetto delle cose e delle persone, e noi stessi – i meridionali – ci sentiamo come a disagio, come “osservati”, e per questo stiamo ben attenti a comportarci bene, ad essere precisi e disciplinati. Così, allo stesso modo, i forestieri e gli extracomunitari che vengono ad abitare a Modugno avvertono subito la “qualità” dell’ambiente che li circonda, e tendono di conseguenza ad adeguarsi, quando, naturalmente, non abbiano già per proprio conto una individuale conformazione mentale e morale ben consolidata, sia in senso positivo che in senso negativo. Non di rado, fra i miei non pochi amici albanesi (gente di tutto rispetto, che potrebbe insegnare civiltà e moralità a tanti nostri concittadini), ho sentito dire che «Modugno è più o meno come l’Albania»: pare, insomma, che sia il paesaggio urbano sia quello civile della nostra città non siano poi molto “distinti” rispetto a quelli di Durazzo e di Tirana, così volgarmente offese in quella miserevole scritta. E che dire poi del gusto tutto modugnese del “frecare” ad incauti malcapitati qualunque oggetto lasciato appena incustodito, dalla bicicletta all’ombrello, dall’utensile domestico ad un attrezzo agricolo?
Di fronte a problemi di tale portata le istituzioni appaiono spesso inadeguate, ma evidentemente le risposte non possono essere soltanto repressive. Certo, i Carabinieri dovranno essere più presenti sul territorio, i Vigili Urbani dovranno essere più vigili, ma, dopo l’uccisione del giovane Lacalamita, toccherà a tutti noi cittadini modugnesi compiere lo sforzo più difficile: quello di modificare alcune cattive abitudini per innalzare il livello di civiltà complessivo del nostro territorio, cominciando magari a fermarci sempre davanti ad un semaforo rosso, anche se l’ora è tarda e dall’altra parte non viene nessuno. Ma la più grande responsabilità, in questo campo, compete ai presenti e futuri amministratori del nostro Comune: rendere la città più vivibile, più decorosa, più dignitosa. La ristrutturazione della villa comunale, la realizzazione del parco di via Verga, il rifacimento della pavimentazione nel centro storico, la ristrutturazione della piazza Romita Vescovo costituiscono importanti successi, ma ancora molto resta da fare: aiutare le scuole nell’opera di integrazione multietnica, incrementare i centri di promozione culturale, attivare nuovi impianti sportivi, cominciando con l’aprire subito la piscina comunale, che tanti giovani può sottrarre ai rischi della devianza. Purtroppo, i nostri Amministratori e dirigenti politici sono impegnati da mesi in estenuanti e penose trattative “per trovare nuovi equilibri” all’interno dei partiti e dei gruppi di maggioranza: a loro evidentemente interessa più chi deve fare l’assessore che non che cosa un assessore deve fare.

SAN NICOLA DA TOLENTINO 2022. IL DISCORSO DI DON NICOLA COLATORTI

Come di consueto, all’inizio della processione di san Nicola da Tolentino, patrono della città di Modugno, don Nicola Colatorti, parroco della Chiesa Matrice di Modugno, ha tenuto il suo discorso alla cittadinanza nell’ambito del rito della «consegna delle chiavi» da parte del sindaco, ing. Nicola Bonasia.
Quest’anno don Nicola ha introdotto la sua relazione con un suggerimento che papa Francesco ha fatto alla Chiesa in merito alla necessità di un «cammino sinodale», in modo da procedere uniti nella stessa fede.
La circostanza è stata quanto mai opportuna per sottolineare che «non si può essere assidui nelle celebrazioni religiose ed essere sordi ai lamenti che ci giungono dalla porta accanto» .
Una considerazione che ha richiamato il concetto di Carità, la più importante delle virtù teologali, così come afferma san Paolo, quando dice: «Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità!» (1 Cor 13,13); ancora più incisivo, il monito di san Giacomo: «Così anche la fede: se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta» (Gc 2,17).
Con questa premessa don Nicola introduce il suo discorso inerente, come di consueto, all’analisi della situazione dei tempi che stiamo attraversando e, in particolar modo, alla nostra realtà locale, auspicando che lo spirito della sinodalità possa guidare coloro che hanno responsabilità politiche e sociali.
Non poteva mancare il riferimento alla grave crisi energetica che interessa, in modo più incisivo, le famiglie con un reddito più basso e che dovranno confrontarsi con il costo esorbitante delle bollette. A tal proposito è stata interessante l’idea di «costituire un fondo energetico là dove lo Stato non riesce ad arrivare» pur ricordando, però, che l’operato della pubblica autorità non si sostituisce alla responsabilità di ciascun cittadino.
La sinodalità non prevede deroghe ad un concetto molto semplice: solo se si resta uniti si possono affrontare, con maggior coraggio, le avversità della vita.
Un discorso che, partendo da spunti di riflessione cristiana, ha fornito interessanti indicazioni sulle quali ciascuno di noi, nell’ambito delle proprie possibilità e competenze, è chiamato a riflettere.

marco pepe

Qui di seguito il discorso integrale di don Nicola Colatorti

Piazza Sedile, lunedì 19 settembre 2022

“La festività odierna ci offre ancora motivo per ripensare la realtà di questa nostra città e porla nelle mani di San Nicola. L’occasione quest’anno ci viene suggerita da papa Francesco su una proposta che lui ha voluto fare a tutta la Chiesa: quella di un cammino sinodale, cioè di camminare insieme, di sentirci compagni di viaggio; un suggerimento che ha molto da dire ai cristiani. Questa proposta noi la allarghiamo all’intera società.

Per i cristiani camminare insieme significa riconoscersi segnati dal battesimo, partecipi di quella comunità che chiamiamo Chiesa. Capire che la Chiesa non è il luogo di occasionali utilità da cui attingere nel bisogno per poi ritirarsi nel rifugio privato: molti sono i cristiani anonimi, senza un volto, senza un’appartenenza, sciolti da ogni vincolo, che appaiono per qualche circostanza, forse anche religiosa, e poi perdersi nel nulla. Cari fratelli nella fede, riconoscete la vostra identità, sappiate tenervi uniti dalla stessa fede, sentitevi Chiesa! La Chiesa soffre della lontananza dei suoi figli e soffre doppiamente là dove di questa lontananza se ne sente colpevole. Riscopriamo i nostri vincoli in quell’unità nutrita di carità, capace di guardare chi ci è accanto, ma ancor più chi ci è dietro o si è smarrito, provato da povertà fisiche e morali che significano tensioni famigliari, precarietà lavorativa, solitudine, malattie, che compromettono un cammino unitario a motivo della loro situazione e forse per nostra noncuranza: non si può essere assidui nelle celebrazioni religiose ed essere sordi ai lamenti che ci giungono dalla porta accanto.

Ma vogliamo allargare gli orizzonti ad una sinodalità sociale che ci faccia vivere il senso della appartenenza: sapere di camminare insieme, convinti che il bene di ognuno è il benessere di tutti. Questo è possibile in un tessuto armonico dove ciascuno per la sua parte, nell’esercizio del proprio ruolo, si pone alla ricerca del bene comune.

Nello spirito di questa sinodalità il primo compito spetta a coloro su cui grava l’impegno di guidare le sorti della nostra città, perché non si fermino ad una pur giusta, ma ordinaria amministrazione nei limiti di un servizio funzionale, ma diano grinta al loro operare, attenti a quella parte della popolazione che per molti versi ristagna ai margini del vissuto cittadino, ci riferiamo a quelle povertà emergenti che con l’evolversi delle situazioni si accrescono e prendono un volto sempre nuovo: c’è chi è in cerca di una casa, vittima di sfratto esecutivo, senza via di soluzione, perché purtroppo trova altre case vuote, ma non disponibili; c’è chi, particolarmente oggi, è alle prese con la situazione energetica a motivo di bollette non risolvibili: a tal proposito con tutta umiltà suggeriamo che sarebbe auspicabile costituire un fondo energetico là dove anche lo Stato non riesce ad arrivare. Ma auspichiamo che si abbia un occhio vigile su situazioni che si prospettano nell’immediato futuro, che già entrano in un piano operativo e che richiedono accorgimenti mirati già al presente: pensiamo a quella trasformazione industriale che si va delineando nel settore automobilistico nel passaggio dall’endotermico all’elettrico, che andrà a compromettere sensibilmente la manodopera. Sappiamo quanta dipendenza ha Modugno in questo settore. E’ dunque una situazione – ci permettiamo di suggerire – che merita di proporsi al Piano di ripresa e resilienza (Pnrr), per prevenire disagi successivi.

Ma va ricordato a tutti che l’operato della pubblica autorità non si sostituisce alla responsabilità di ciascun cittadino. La sinodalità a cui facciamo riferimento non ammette deleghe: o si procede uniti o si affonda. I limiti della pubblica autorità devono portare ognuno ad un cammino virtuoso, libero da egoismo o disimpegno, facendosi carico di quella sussidiarietà capace di guardare più in profondità in quegli angoli oscuri dove solo l’occhio attento di ciascuno può arrivare.

Sono questi i desideri che auspichiamo e che quest’oggi affidiamo a San Nicola. A lui non chiediamo la soluzione dei nostri problemi, ma piuttosto che tocchi il nostro cuore ad una sincera sinodalità per poterli risolvere”.

La devozione popolare verso san Rocco e san Nicola da Tolentino.

Uno degli appuntamenti più attesi della nostra città è certamente quello di fine settembre, – quest’anno anticipato per ragioni elettorali – quando si celebra la festa dei santi Patroni, san Rocco da Montpellier e san Nicola da Tolentino. Nella circostanza, fede e tradizione danno vita ad un evento che unisce tutta la nostra comunità.

L’inizio del culto di san Rocco, a Modugno, non è documentato da fonti dirette; quello che certamente è riconducibile a san Rocco, però, è la costruzione della chiesa di san Sebastiano (ora dedicata all’Assunta) avvenuta durante la peste del 1535. Sappiamo infatti che il culto di san Sebastiano era sempre stato associato a quello di san Rocco perché, entrambi, furono invocati durante la pestilenza. La presenza della chiesetta intitolata a san Sebastiano costituisce, quindi, una prima testimonianza, sia pure indiretta, dell’avvio del culto di san Rocco nella nostra città, grazie anche al contributo, offerto in tal senso, dai frati cappuccini che si insediarono nel loro convento all’inizio del Seicento. Per risalire alle notizie riguardanti l’adozione di san Rocco, quale «protettore» della città di Modugno, bisogna far riferimento a due importanti documenti: alla Cronaca sulla peste del 1656 di Vitangelo Maffei, che lo associa a san Pietro Martire e san Nicola da Tolentino, e dalla Cronaca sui fatti del 1799 di Giambattista Saliani che lo associa, invece, soltanto a san Nicola da Tolentino.

Per quanto riguarda quest’ultimo, invece, i contorni della vicenda sono meno nebulosi grazie ad una documentazione che chiarisce ogni aspetto legato alla «scelta del protettore», avvenuta nel 1749. La documentazione a supporto è stata reperita presso l’Archivio Diocesano di Bari e costituisce anche la prova della partecipazione del popolo riguardo alla devozione verso i Santi, nel chiedere il loro patrocinio. Con delibera del 15 maggio 1749, l’Università di Modugno proclama san Nicola da Tolentino patrono principale della Città.
Dalle notizie storiche risulta che a Modugno la festa patronale di san Nicola da Tolentino si è celebrata il 10 di settembre, sino al 1860. Con l’Unità d’Italia i rapporti tesi tra lo Stato e la Chiesa ebbero ripercussioni anche nei confronti dei Comuni e pertanto anche la cerimonia della «consegna delle chiavi» fu osteggiata.

La situazione cambiò dopo i Patti Lateranensi del 1929. A Modugno fu la «Confraternita di san Nicola» a riprendere, dopo il 1860, i festeggiamenti per il principale patrono che si tennero, per diversi anni, nel mese di ottobre in forma molto rimaneggiata.

Nel 1952 don Nicola Milano, nominato arciprete di Modugno nel 1946, unificò i festeggiamenti di san Rocco e san Nicola fissandoli, rispettivamente, nell’ultima domenica di settembre e al lunedì successivo, promuovendo quindi la tradizionale cerimonia della citata «consegna delle chiavi» nell’ambito della festa di san Nicola.


 

Le fonti storiche sono state reperite dalle seguenti pubblicazioni:

«San Rocco e San Nicola da Tolentino patroni della città di Modugno», a cura del prof. Raffaele Macina, Edizioni Nuovi Orientamenti, luglio 2018;

«La scelta del protettore di Modugno», supplemento al n. 3, 1982 della rivista «Nuovi Orientamenti» (con il patrocinio del Comitato Feste Patronali), a cura del mons. Michele Ruccia.

Per eventuali approfondimenti entrambe le pubblicazioni sono reperibili attraverso i link di seguito indicati.

[2018] San Rocco e San Nicola da Tolentino
[1982] La scelta del protettore di Modugno [1749]

Presentazione della categoria “Accadeva a Modugno il…”

Con il numero n. 132 della rivista «Nuovi Orientamenti» (gennaio 2008, anno XXX), fu intrapresa un’interessante iniziativa: in deroga alla tiratura ordinaria, fu pubblicato «Il calendario storico modugnese del 2008» nell’ambito del quale, per ciascun mese, furono riportati in ordine cronologico gli avvenimenti storici della nostra città, corredati di brevi commenti curati dal prof. Raffaele Macina, direttore della rivista. Si è pensato di riproporre tale ricerca storica, probabilmente non conosciuta da tutti gli abbonati, intitolando la nuova rubrica «Accadeva a Modugno il…» con l’obiettivo di annotare gli eventi di rilievo per «richiamare l’attenzione sul grande patrimonio costruito dalla nostra comunità, nel fluire della sua storia millenaria». Trascrivere gli eventi ha suscitato una bella sensazione, restituendo un piacevole senso di appartenenza alla nostra città; è la sensazione che auguro nell’invitarvi a seguire la nostra «nuova» rubrica.

(mp)


 

Qui di seguito l’articolo «Il calendario come occasione per riflettere sulla Città» (testo integrale), a firma del prof. Raffaele Macina, nel quale furono spiegate le ragioni dell’iniziativa:

«Dopo la pubblicazione nel 2001 dell’Agenda storica modugnese, più volte in questi anni, nelle nostre riunioni redazionali, si è affacciata l’ipotesi di realizzare un calendario che con brevi sintesi presentasse i fatti storici più importanti della città. Col 2008 viene alla luce il Calendario storico modugnese, che da un lato, come tutti i calendari, vuol essere un utile strumento per orientarsi fra i giorni e i mesi dell’anno, dall’altro vuole soprattutto richiamare l’attenzione sul grande patrimonio costruito dalla nostra comunità nel fluire della sua storia millenaria. Un patrimonio ricco e complesso che, incrociandosi con i grandi eventi nazionali ed internazionali, riguarda tutti gli aspetti dell’umano: pestilenze, guerre, pericoli, odi, albagia del potere, ma anche testimonianze di virtù, solidarietà, amore vero per il prossimo, dedizione per la propria città e per il bene comune. Dopo aver ultimato il lavoro, rivedendo il tutto e scorrendo i mesi con le diverse informazioni storiche, ho avuto quasi la sensazione di essere sollecitato da una notizia o da una illustrazione a fermarmi, a riflettere su quello che altri hanno fatto prima di noi nello stesso territorio all’interno del quale ora ci muoviamo.

Ecco, fermarsi e riflettere sull’operato di chi ci ha preceduti, su una piazza, una chiesa, un monumento, che costituiscono il patrimonio che la storia ci ha affidato perché poi lo si possa trasmettere integro alle future generazioni, questo sì che è un invito da cogliere.

Fermarsi, anche per capire di più le dinamiche sociopolitiche di una comunità e le smanie per tutto ciò che sa di effìmero e di improvvisato, destinato ad essere nullificato dal severo giudizio della storia.
Fermarsi per osservare quanto sia lenta, anzi lentissima, la politica di recupero di un bene culturale e quanto poco si faccia per quell’archivio storico comunale, che, trasportato a Bari nel 1980 presso l’Archivio di Stato per mancanza di locali comunali, ancora oggi dopo 28 anni non si riesce a riportare a Modugno.
Fermarsi anche per cogliere alcuni caratteri della storia della città: la presenza di vincoli comunitari che nel passato hanno motivato ad azioni concrete di solidarietà (la costruzione con capitali privati di una “peschiera”, la fondazione di una scuola o di una Società di Mutuo Soccorso); la capacità di affrontare e risolvere situazioni difficili come quando per ben due volte, dopo essere stata acquistata come feudo, Modugno si riscatta riconquistando la condizione di città regia, che garantiva un sistema fiscale meno oppressivo e livelli maggiori di autonomia politica.
Fermarsi, infine, per elaborare un’idea di città che sia in grado di conciliare sviluppo e vivibilità. Oggi sono molti i fattori che attentano alla vivibilità nella nostra città: oltre a quelli esterni (Centrale, Zona Industriale, ecc), vi è questa corsa sfrenata alla cementificazione che fa sorgere più appartamenti su una superficie prima occupata da una sola abitazione, con tutto quello che ne consegue a livello di servizi, viabilità ed inquinamento. Sembra di essere ritornati alla logica del mattone degli anni Sessanta, che registrarono indici elevati di speculazione edilizia.
Anzi, rispetto a quegli anni, oggi c’è un’aggravante: il prezzo degli appartamenti è giunto a livelli impossibili, addirittura superiore a quelli di molte zone di Bari. Lo sanno molto bene i giovani che, quando mettono su casa, vanno via da Modugno.
Ed una città che espelle i suoi giovani, non può avere alcuna storia. Ecco, io mi auguro che questo calendario del 2008 possa suscitare un maggiore interesse per la storia della città che, come si sa, non riguarda solo il passato ma anche il presente e la stessa possibilità di superare i suoi problemi.
(R.M.)

Il link per consultare la rubrica “Accadeva a Modugno il…”
https://www.nuoviorientamenti.it/category/attualita/accadeva-a-modugno-il/

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