E’ tempo che il Comune promuova un’autentica programmazione per l’intera realtà di Balsignano

Anno XIX N. 85 dicembre 1997
Speciale Neolitico

LO SVILUPPO DELLA RICERCA NEGLI ULTIMI ANNI

Le ricerche che a partire dal 1993 hanno interessato l’insediamento neolitico di Balsignano, finanziate dal Comune di Modugno, che ha dimostrato una particolare attenzione alla tutela di manifestazioni così rare ed eccezionali, e condotte dalla Soprintendenza Archeologica della Puglia, hanno confermato l’eccezionale interesse del sito di Balsignano nel quadro generale delle conoscenze sulle forme del più antico popolamento del territorio. I dati infatti indicano con particolare evidenza la presenza di un nucleo abitativo delle più antiche fasi del Neolitico (VI-V millennio), con capanne e strutture funerarie distribuite sul pianoro prospiciente un’ansa lungo il medio corso di Lama Lamasinata, a poca distanza dall’odierno centro abitato di Modugno, in un tratto in cui il paesaggio è ancora ben conservato con i caratteri tipici della campagna ‘della Bassa Murgia barese. Nei livelli archeologici intatti sotto lo strato di terreno vegetale si conservano, in particolare, le testimonianze della cosiddetta cultura materiale quale segno tangibile delle comunità di agricoltori che utilizzarono il pianoro in fasi successive, e che hanno lasciato le loro tracce nelle strutture abitative, nelle pratiche funerarie e più in dettaglio negli oggetti d’uso quotidiano, nei vasi in impasto, decorati ad impressioni a crudo sulla superficie esterna e negli attrezzi da lavoro in pietra, selce ed osso. Le ricerche sono condotte in collaborazione con specialisti di diverse discipline (Paletnobotanica, Archeozoologia, Geologia e Mineralogia, ecc.), tendendo alla ricostruzione del profilo ambientale dell’epoca (se ne dà un cenno generale nel contributo seguente) e delle attività economiche, secondo i più moderni orientamenti della ricerca scientifica nel settore, finalizzati alla ricostruzione più completa possibile dei contesti antichi. È ormai evidente come il sito di Balsignano, oltre a rappresentare quindi una significativa riserva archeologica che necessita naturalmente di approfondimenti scientifici, sia da considerare particolarmente privilegiato ed adatto, rispetto ad altri noti, ad un progetto di valorizzazione che ne preveda la musealizzazione all’aperto, considerato lo stato del luogo, ben integrato nell’ambiente naturale della lama, non lontano dalla città e facilmente raggiungibile di qui forse anche con una passeggiata a piedi. Con le ricerche del 1996 si aprivano nuovi settori di intervento in punti diversi del pianoro, evidenziando in particolare nell’area centrale la presenza di una struttura che sembrava assimilabile per tipologia alla grande capanna, ed ancora in corso di scavo, mentre questo lavoro viene pubblicato nell’ambito delle indagini 1997. Le ricerche sono state condotte con l’impresa “Topputi” di Turi da un affiatato gruppo di ricercatori e tecnici a vari livelli della Soprintendenza Archeologica della Puglia – Centro operativo per l’Archeologia di Bari (V. Ursi , D. Ursi, A. Lacirignola, O. Lorusso, V. Falco, N. Abbrescia ) e archeologi o collaboratori esterni a vario titolo (G. Fiorentino, I. Muntoni, G. Lasorella, V. Celiberti, G. Miolla), affiancati da un nutrito gruppo di volontari (M. Ventrella, R. Sanseverino, M. Sicolo, D. Di Ciaula) cui va dato atto dell’impegno profuso nella ricerca.
A questi si aggiunge il costante e fondamentale appoggio e incoraggiamento di Raffaele Macina e l’assistenza tecnica dell’Ufficio Tecnico di Modugno (ing. E. Petraroli, dott. D. Tedesco, geom. Murgese). Gli scavi sono stati inoltre più volte visitati dal Sindaco ing. Francesco Bonasia e dal vicesindaco dott.ssa Stella Sanseverino, ai quali va il nostro ringraziamento in generale per il congruo sostegno economico, senza il quale non avremmo potuto ampliare lo stato attuale delle nostre conoscenze sul sito e sul Neolitico più in generale.

In parallelo con l’attività di ricerca si intende promuovere nei prossimi mesi, di concerto con l’Amministrazione comunale, utilizzando un apposito finanziamento messo a disposizione dallo stesso Comune, una serie di iniziative finalizzate alla pubblicizzazione dei dati conseguiti e quindi alla valorizzazione dell’insediamento, che si pensa di articolare in diverse fasi e rivolte a vari tipi di utenza, che possono così riassumersi:

• mostra didattica da tenersi in data da concordare nel 1998 (in locali da individuarsi a Modugno), destinata ad un ampio pubblico, con la presentazione in anteprima dei dati ancora in corso di approfondimento e stampa di un opuscolo divulgativo;
• riproduzione integrale in scala 1:1 della sepoltura rinvenuta nella campagna ancora in corso e riproduzione in scala 1:20 della grande capanna neolitica;
• seminario di studi sul tema “Strutture abitative del Neolitico italiano” da tenersi a Modugno nel 1999, con stampa degli atti e del catalogo.

CAMPAGNA DI SCAVI 1996

Gli obiettivi della campagna di scavo 1996 erano essenzialmente orientati secondo due linee di intervento:
il primo era quello di continuare a saggiare l’area del pianoro su cui era collocato l’insediamento per l’eventuale individuazione di altre strutture di confronto con la grande capanna individuata con gli scavi del 1993- I risultati conseguiti nel settore orientale del sito con la scoperta di un piano abitativo con lastre e blocchi calcarei squadrati, a delimitazione di un’area funzionale alla struttura, caratterizzata dalla presenza di un grande contenitore in ceramica in frammenti a decorazione impressa, facevano ben sperare circa la possibilità con la prosecuzione delle ricerche e con più ampi scavi in estensione (vedi campagna di scavi 1997) di poter ricostruire un tassello dell’antico abitato anche sul piano della distribuzione spaziale degli elementi esistenti e quindi dei rapporti intercorrenti tra loro:
il secondo obiettivo, per il momento più complesso, ha riguardato l’area di scavo appunto della grande capanna rettangolare individuata nella parte centrale del pianoro, e riferibile al Neolitico Antico, con uno sviluppo pianimetrico di circa m 7×4, caratterizzata da un piano di fondazione omogeneo a piccole pietre con struttura muraria di delimitazione perimetrale; un’ulteriore articolazione della pianta è data dalla presenza sul lato occidentale di un lastricato a basole regolari ricoperto dal crollo di un elevato in argilla, con impronte dell’incannucciato, costituito da paletti, canne e travi variamente incrociati e/o paralleli tra loro.

Proprio allo scopo di definire in dettaglio la complessa e rara situazione, eccezionale per il suo stato di conservazione, si è proceduto ad un lavoro analitico di scavo della struttura e quindi di rilievo grafico e fotografico, che serve ad evidenziare quelle articolazioni e lacune nello sviluppo pianimetrico complessivo altrimenti non ben percettibili, come quelle attestate sul lato meridionale, a profilo semicircolare. Sono inoltre apparsi con maggior evidenza, nel corso dell’approfondimento di scavo della struttura, i punti di appoggio su roccia dei paletti lignei che dovevano sorreggere l’elevato.
Una parte rilevante delle attività è stata dedicata alla registrazione della posizione degli intonaci in un rilievo in scala 1:5 e, quindi, dell’orientamento rispetto all’attuale campo magnetico delle impronte dei pali o canne presenti sui campioni (circa trecento quelli prelevati), in vista di analisi paleomagnetica da parte del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Napoli, considerato che, avendo subito un’alterazione termica per l’incendio e quindi il crollo dell’elevato di cui facevano parte, esse dovrebbero aver registrato le caratteristiche del campo magnetico del tempo. L’obiettivo è naturalmente quello di poter ricostruire la trama dell’incannucciato e della posizione di questo rispetto alla pianta della capanna prima del suo crollo.
Non senza numerose perplessità circa la compatibilità dell’intervento con una lettura completa della struttura che ci si augura possa essere al più presto restaurata e, quindi, protetta da opportuni sistemi di salvaguardia, visitabile, è stato praticato un saggio ristretto al centro del piano di calpestìo, fino a raggiungere l’affioramento calcareo sottostante cui la capanna ha adattato il proprio sviluppo. Ciò ha consentito di verificare la tecnica di preparazione del vespaio di pietre a più strati sovrapposti per uno spessore di venti centimetri circa e le relazioni stratigrafiche con l’area esterna alla capanna. È stato contestualmente avviato un programma di caratterizzazione archeometrica degli elementi reperiti, partendo da alcuni campioni di ceramica impressa e di intonaco rinvenuti in questo contesto che sono stati sottoposti ad analisi mineralogico-petrografica e chimica, di cui si dà qualche cenno nel contributo seguente.

CAMPAGNA DI SCAVI 1997

L’approfondimento di un ampio saggio centrale sul pianoro (saggio IV), con l’esplorazione di una grande unità abitativa per alcuni versi simile in quanto a caratteri strutturali alla grande capanna rettangolare, di cui è ancora in corso peraltro lo scavo mentre si scrivono queste note, portava al rinvenimento non del tutto inaspettato di una sepoltura umana entro una fossa subrettangolare foderata da pietre, disposta a SE dell’unità abitativa e probabilmente ad essa coeva o di poco successiva. Questo rinvenimento, di cui si possono per il momento dare solo pochi cenni essendo ancora la deposizione in fase di scavo, è piuttosto importante per vari ordini di motivi. Innanzitutto conferma la potenzialità di dati che il sito di Balsignano offre per gli studi sul Neolitico italiano per la compresenza di aspetti diversi quali quelli legati, oltre che alla vita quotidiana, all’artigianato, all’economia di sussistenza per esempio, anche alla sfera funeraria con le pratiche peculiari di queste antiche comunità neolitiche. Inoltre, lo stato di conservazione dei resti archeologici, ivi compresi, considerato questo rinvenimento, quelli di carattere funerario, e lo scarso interro di terreno vegetale che li ricopre costituiscono un carattere ottimale per una ricerca in estensione finalizzata alla possibilità di scoprire piuttosto velocemente ampi tasselli dell’insediamento che possano farci comprendere anche come era articolato lo spazio al suo interno, la densità delle abitazioni, i luoghi destinati alle lavorazioni diverse, gli spazi per gli animali, e i luoghi di sepoltura e forse anche di culto.
Allo studio della sepoltura concorrono gli antropologi V. Scattarella e S. Sublimi Saponetti che hanno fornito questa breve descrizione del reperto per l’occasione:
“Sepoltura in posizione contratta, adagiata sul fianco destro. In particolare il cranio ed il torace poggiano sul lato destro, l’arto superiore destro risulta esteso in pronazione, obliquamente in avanti; dell’arto superiore sinistro si conserva invece solo l’omero che appare notevolmente dislocato dalla posizione anatomica originaria, gli arti inferiori sono entrambi in flessione ed il ginocchio destro (parzialmente dislocato dalla posizione anatomica ) risulta in posizione più craniale rispetto al sinistro sovrastante; le gambe risultano parzialmente incrociate in modo tale che il tallone destro alloggi sul dorso del piede sinistro. La deposizione fa riferimento ad un individuo in piena età adulta e di sesso presumibilmente maschile. Solo necessarie indagini di laboratorio chiariranno le modalità di deposizione, la corretta attribuzione del sesso e la ricostruzione delle attività occupazionali e di sussitenza”.

Per il momento non si può del tutto escludere la presenza di elementi di corredo alla deposizione, essendo lo scavo ancora in corso, che tuttavia sembra poter essere inquadrata nel Neolitico Antico. Considerata inoltre la completezza del rinvenimento, che presenta ancora quasi integra la struttura litica di contorno alla fossa, si è deciso, di concerto con il Comune di Modugno, di predisporre il calco e quindi la copia in resina in scala 1:1, secondo una tecnica ormai brevettata e messa a punto in altri rinvenimenti del genere, che consente di conservare l’impronta dell’originale ancora integro, e quindi di ricavarne delle copie, prima della necessaria asportazione dei reperti osteologia per lo studio. Si è chiesta in questo caso la consulenza dell’archeologo D. Coppola ed i lavori del calco sono stati affidati a G. Colucci, tecnico esperto di questo tipo di riproduzione. Tale copia, come si è già detto prima, sarà esposta nella mostra in preparazione. Recentissima infine l’individuazione, a sud della nuova area abitativa che si viene scoprendo nel saggio centrale, di una area di focolare con resti carbonizzati contestuale al piano d’uso, la cui analisi al C14 dovrebbe consentirci anche di ottenere delle datazioni in cronologia assoluta per l’insediamento di Balsignano.

Francesca Radina
Centro operativo per l’Archeologia - Bari
Soprintendenza Archeologica della Puglia

LE INDAGINI ARCHEOMETRICHE SUL SITO NEOLITICO DI BALSIGNANO

La classe di reperti, di gran lunga più rappresentata, a Balsignano è costituita in primo luogo dai frammenti dei vasi in ceramica, rinvenuti in gran quantità sui piani di calpestìo antichi esternamente alle due strutture abitative finora individuate, stimabili complessivamente in circa 1.000 pezzi. Lo studio della produzione ceramica riveste una grande importanza ai fini della ricostruzione delle attività svolte dalla comunità neolitica di Balsignano. Lo studio dei frammenti permette infatti in primo luogo di ricostruire le forme dei vasi, che potevano essere costituiti sia da grandi contenitori (doli e olle), utilizzabili per conservare derrate alimentari, quali l’acqua o le granaglie, o per cuocere il cibo, sia da forme più piccole (scodelle e ciotole), che potevano essere usate in modi diversificati, per mangiare o bere, per attingere l’acqua o i semi dai vasi più grandi, per riscaldare piccole quantità di cibo, e così via. L’osservazione dei frammenti ceramici può consentire in secondo luogo di raccogliere informazioni molto utili sulle modalità di realizzazione dei vasi, sui materiali (in particolare l’argilla) che venivano utilizzati, sulle tecniche di decorazione, sulle modalità di cottura, a fuoco libero o in piccoli forni. A tal fine è stata effettuata una prima campionatura rappresentativa, per un totale di 30 frammenti di ceramica, cui si è affiancata quella dei sedimenti di terra rossa naturalmente affioranti, che presumibilmente sono da interpretare come il paleosuolo antico su cui si sono impostate le strutture abitative. In relazione alle metodiche analitiche, sono state prescelte quelle mineralogico-petrografiche e chimiche, solitamente utilizzate per la caratterizzazione delle ceramiche preistoriche. Le analisi saranno effettuate presso il Dipartimento Geomineralogico dell’Università degli Studi di Bari. I campioni saranno sottoposti ad analisi in sezione sottile al microscopio a luce polarizzata trasmessa, previo prelievo di una frazione, sia pure di dimensioni ridotte, del campione dalla quale, opportunamente assottigliata e montata su un vetrino, si otterrà una sezione sottile e trasparente dello spessore di 30 micron. Le analisi in sezione sottile saranno molto utili per la determinazione delle aree di provenienza dei manufatti, grazie al confronto tra i minerali contenuti nella ceramica e quelli presenti nelle formazioni sedimentarie analizzate e segnalate nella letteratura geologica della zona.

Ai fini del riconoscimento delle fasi mineralogiche costituenti la matrice argillosa che, per le sue caratteristiche, in sezione sottile si presenta come una massa scura di fondo, i campioni saranno sottoposti ad analisi per diffrattometria di raggi X su polveri, la quale consente l’identificazione dei minerali argillosi o di quelli non riconoscibili in sezione sottile per le loro dimensioni estremamente ridotte, grazie alle proprietà dei piani cristallini dei minerali di riflettere secondo determinati angoli un fascio di raggi X a loro incidenti. In relazione invece alle analisi di caratterizzazione chimica, che consentono una misurazione quantitativamente più dettagliata di un gran numero di elementi chimici presenti aH’interno dell’intero corpo ceramico, sia cioè nella frazione argillosa che negli inclusi, i campioni saranno sottoposti ad analisi per fluorescenza di raggi X (XRF). Tale metodica offre la possibilità di misurare gli elementi maggiori, minori ed in traccia costituenti un materiale ceramico. In esso gli elementi chimici eccitati emettono raggi X caratteristici, la cui lunghezza d’onda rende possibile l’identificazione dell’elemento e la cui intensità è proporzionale alla concentrazione dell’elemento stesso. Il secondo gruppo di reperti archeologici oggetto di analisi è costituito dall’industria litica in selce ed ossidiana, presente sotto forma di lame e lamelle, schegge di lavorazione e nuclei. Lo studio di questi manufatti sarà finalizzato in particolare allo studio delle tracce d’uso presenti sui diversi tipi di strumenti per ricostruire le modalità di utilizzo. I gruppi neolitici realizzavano infatti una serie di strumenti di forme diverse per usi differenziati, dal taglio di canne e giunchi a quello dei cereali e delle leguminose coltivate, dal taglio della carne durante la macellazione degli animali alla lavorazione delle loro pelli.
L’ossidiana in particolare è una roccia vulcanica vetrosa, che si rinviene nell’area del Mediterraneo centrale solo in quattro diverse aree, costituite rispettivamente da Monte Arci in Sardegna, dalle isole di Palmarola e Lipari nel Tirreno ed infine nell’isola di Pantelleria a Sud della Sicilia. Data la facile lavorabilità di questo materiale e la possibilità di ottenere strumenti quasi perfetti, l’ossidiana era oggetto di scambi e di circolazione in tutte le comunità neolitiche dell’Italia meridionale, per cui la possibilità di individuare le aree di provenienza di singoli manufatti, ritrovati anche a centinaia di chilometri da esse, consente di raccogliere elementi molto significativi per la ricostruzione delle relazioni culturali e sociali tra comunità diverse e delle vie stesse di commercio. I campioni di ossidiana pertanto saranno sottoposti ad analisi chimiche presso il Dipartimento Geomineralogico dell’Università degli Studi di Bari, mediante un Microscopio Elettronico a Scansione (SEM) collegato ad uno spettrometro a raggi X in dispersione di energia (EDS) che consente un notevole dettaglio nel dosaggio puntuale di elementi chimici, in particolare di alcuni elementi chimici discriminanti, quali CaO, Si02, A1203 e Na20+K20.

Italo Muntoni
Dottorato di ricerca in Preistoria
Università La Sapienza – Roma

L’ANALISI ARCHEOBOTANICA

L’analisi archeobotanica si occupa dello studio dei resti vegetali recuperati negli scavi archeologici attraverso i quali è possibile ricavare una serie di dati sull’ambiente vegetale del passato e sulle strategie economiche adottate dall’uomo per sfruttarlo come fonte di cibo e di energia. In particolare, lo studio dei legni, dei carboni, dei semi, dei frutti e di altri organi dell’apparato vegetativo della pianta (macroresti vegetali), fornisce importanti informazioni riguardanti l’attività dell’uomo e lo sfruttamento delle risorse naturali, attraverso il taglio e la raccolta di legna nel bosco per l’approvvigionamento di combustibile e di materia prima per le opere di carpenteria e di falegnameria, lo sviluppo delle tecniche agrarie di coltivazione dei cereali e di altre erbacee, le modalità di preparazione e consumazione degli alimenti, etc. Invece le caratteristiche del paleoambiente vegetale in un determinato, periodo vengono generalmente ricostruite grazie all’analisi dei granuli di polline prodotti dagli apparati riproduttori delle piante e dispersi dagli insetti o dal vento in una zona ampia intorno al sito archeologico (analisi pollinologica): partendo dal presupposto che le varie entità vegetali o associazioni delle stesse, danno risposte differenti alle condizioni climatiche prevalenti in un determinato periodo, ne deriva un collegamento tra caratteristiche della vegetazione e clima, con la possibilità di identificarne, almeno a grandi linee, le variazioni. In assenza di analisi polliniche, in generale in Italia meridionale viene utilizzato come indicatore paleoambientale l’analisi dei frammenti di carbone pertinenti al legno delle specie arboree ed arbustive utilizzate come combustibile nei focolari preistorici (analisi antracologica). E’ evidente che a differenza dei pollini (a dispersione naturale e rappresentazione regionale), la presenza di carboni in un giacimento archeologico è condizionata dalle modalità di raccolta della legna da parte dell’uomo, in un’area presumibilmente più circoscritta. Il presupposto teorico dell’analisi antracologica è che i frammenti di carbone recuperati nel corso dello scavo archeologico provengano dalla pulizia e dallo svuotamento dei focolari, accesi più volte nel corso della frequentazione del sito e che il combustibile utilizzato per alimentarli corrisponda ad una campionatura casuale della vegetazione circostante, rispecchiandone, pertanto, le caratteristiche. L’analisi dei dati derivati dalla determinazione di un numero significativo di frammenti di carbone, esaminati al microscopio (a luce riflessa ed elettronico a scansione) per il riconoscimento delle caratteristiche anatomiche discriminanti delle singole essenze, consente, infatti, di ricostruire la composizione del bacino di approvvigionamento del combustibile legnoso nel corso delle varie fasi di occupazione degli insediamenti. La maggior parte dei macroresti vegetali recuperati ed analizzati nel corso degli scavi è, generalmente, pertinente a semi e/o frutti o a parte degli stessi (carporesti), generalmente riferiti a piante di uso alimentare. A causa delle condizioni climatiche e delle caratteristiche chimiche dei depositi archeologici alle nostre latitudini, che favoriscono l’attacco e l’azione demolitrice dei batteri e degli altri organismi viventi del terreno, è possibile, tuttavia, solo la preservazione di macroresti vegetali carbonizzati. I resti che vengono recuperati, infatti, tutti allo stato carbonizzato, proprio per la loro condizione fisica, si riferiscono a semi e frutti accidentalmente o intenzionalmente combusti dall’uomo e solo per questo conservati sino ai nostri giorni. In generale si tratta di cariossidi di cereali “vestiti” (come il farro), ricoperti cioè da un involucro resistente (glume), che necessitano di una parziale tostatura prima del consumo alimentare. È probabile, pertanto, che i resti carbonizzati recuperati si riferiscano ad una tostatura mal riuscita e non controllata da parte dell’uomo. Un’altra fonte di resti, da non trascurare, è rappresentata dalla paglia, scartata nel corso della lavorazione dei cereali, utilizzata talora come combustibile per ravvivare il fuoco o generalmente selezionata come alimento per gli animali e come componente nell’impasto dell’intonaco per le pareti delle capanne e negli impasti dei vasi. Inoltre è possibile recuperare i semi e i frutti di quelle piante che crescevano spontaneamente nell’abitato o che vi erano trasportate involontariamente dall’uomo o dagli animali, che in qualche modo si depositano all’interno degli strati archeologici. Infine, un’altra particolare categoria di resti è costituita dalle impronte di elementi vegetali sull’argilla dei vasi o dell’intonaco: il ritrovamento di questa particolare categoria di resti può rappresentare un valido strumento interpretativo tanto sul piano più propriamente paleoecologico (attestazione di specie), quanto su quello paletnologico generale (uso dei vegetali in diverse tecniche artigianali). L’uso di parti diverse della pianta, come le foglie ma anche le radici, i tubercoli, etc., doveva aver avuto una grande importanza alimentare, oltre che per la farmacopea e le attività artigianali, in comunità con una grande vocazione agro-pastorale ed un forte rapporto con l’ambiente naturale circostante. 

I MACRORESTI DELL’INSEDIAMENTO NEOLITICO DI BALSIGNANO

Le caratteristiche archeologiche delle aree preistoriche sinora investigate a Balsignano (almeno due strutture abitative di grandi dimensioni ed una sepoltura) e l’eccezionale stato di conservazione dei resti, unite alle possibilità logistiche del cantiere di scavo (acqua corrente e predisposizione di una struttura per la setacciatura), hanno consentito un sistematico trattamento di tutto il sedimento scavato pertinente ai livelli archeologici, con un’ampia raccolta di tutti i macroresti vegetali. A differenza delle tradizionali tecniche di campionamento adottate nell’ambito dello scavo archeologico, è stato possibile trattare tutto il sedimento scavato per una puntuale caratterizzazione della distribuzione spaziale dei resti in relazione alle capanne, e cercare quindi di individuare e caratterizzare aree funzionali diverse (zone di immagazzinamento dei cereali, focolari e zone di cottura, etc). Il sedimento setacciato è stato visionato al microscopio stereoscopico binoculare a bassi ingrandimenti (8X e 10X) e sono, stati recuperati numerosi macroresti vegetali carbonizzati di tessuto legnoso e semi e/o frutti di piante erbacee. Accanto al recupero dei macroresti carbonizzati inglobati nel sedimento archeologico, è stata inoltre programmata l’analisi delle impronte vegetali presenti negli intonaci, sia per valutare le modalità di costruzione degli alzati e gli elementi caratteristici degli impasti, sia per raccogliere ulteriori informazioni sulle caratteristiche della vegetazione antica. Una prima analisi ha già consentito di evidenziare su alcuni blocchi di intonaco le impronte di cariossidi di cereali, alcune foglie, tessuto vegetale intrecciato per cordami, mentre quasi tutti i blocchi recuperati presentano le impronte, variamente orientate, pertinenti a fusti di graminacee (canne) e ad elementi di paleria ricavati da rami e tronchi di piante arboree.

GLI ELEMENTI STRUTTURALI DELLE CAPANNE

Il ritrovamento eccezionale di almeno due fondi di capanne, caratterizzati da una complessa articolazione di acciottolati e basi di muretti, oltre che di un’ampia distribuzione di frammenti di intonaco, hanno richiesto particolari metodologie di intervento nel corso dello scavo. Particolare attenzione è stata rivolta alla raccolta di informazioni pertinenti al crollo degli intonaci che originariamente rappresentavano il rivestimento delle pareti o del tetto delle capanne.
Le tecniche costruttive dell’antichità facevano ricorso a materiali poveri, generalmente facilmente reperibile nei dintorni del sito; nel caso di Balsignano, gli antichi costruttori hanno utilizzato pietre e scaglie del substrato calcareo per la costruzione dei muri e del vespaio della pavimentazione, mentre con funzione di isolamento e legante della paleria dell’alzato e del tetto è stato utilizzato un impasto di argilla variamente mista con resti vegetali (in prevalenza paglia).
L’abbandono delle strutture e la loro distruzione ad opera di incendi hanno restituito fino ai nostri giorni questi elementi strutturali, preservando gli impasti argillosi grazie alla cottura accidentale. La cottura ha infatti impedito il degrado completo dell’argilla e, soprattutto, ha conservato le impronte in negativo degli elementi di paleria che avvolgeva, consentendo lo studio e la ricostruzione delle tecniche costruttive.
La strategia di intervento nel corso dello scavo si è articolata attraverso una raccolta di informazioni puntuali sulla posizione e l’organizzazione delle principali impronte visibili su ogni singolo frammento di intonaco, mentre una particolare attenzione è stata dedicata al posizionamento nello spazio del singolo pezzo.
L’operazione di raccolta dati si è rivelata particolarmente lenta e faticosa, per cui si è optato per una divisione in due fasi: una necessariamente collegata alle fasi di scavo (posizionamento nello spazio del singolo frammento di intonaco e rilievo dell’orientamento delle impronte principali), l’altra demandata allo studio in laboratorio (relazione tra le impronte, misurazione delle stesse). L’eccezionalità del ritrovamento e la natura argillosa dei resti di intonaco hanno rivolto la nostra attenzione su particolari tecniche analitiche altamente sofisticate per consentire lo studio della posizione originaria dei blocchi di intonaco nello spazio tridimensionale (analisi paleomagnetiche) e permettere la ricostruzione delle caratteristiche dell’alzato delle capanne grazie all’elaborazione di simulazioni virtuali delle modalità di crollo. Lo studio del paleomagnetismo residuo consente, infatti, di recuperare informazioni sul campo magnetico terrestre al momento dell’incendio delle strutture neolitiche, rappresentando quindi un valido strumento d’indagine per il posizionamento originario dei singoli frammenti d’intonaco nello spazio. Gli intonaci, infatti, costituiti prevalentemente di argilla, contengono ossidi di ferro (magnetite ed ematite), molto sensibili alle variazioni del campo magnetico terrestre, che al momento dell’incendio della struttura hanno orientato i propri elettroni secondo la direzione del campo magnetico dell’epoca. Lo studio e l’elaborazione dei dati registrati in ogni singolo blocco di intonaco e il confronto con il campo magnetico registrato sui blocchi di calcare sottoposti anch’essi ad alterazione termica (l’incendio infatti dovrebbe aver permesso la registrazione della posizione degli elettroni degli ossidi di ferro presenti naturalmente nel calcare) offre la possibilità di riposizionare i singoli blocchi d’intonaco nello spazio e di ricostruire le caratteristiche strutturali della capanna. Inoltre, grazie all’ausilio di programmi di simulazione elettronica, a partire dalla ricostruzione della posizione originaria dei singoli blocchi di intonaco e la posizione finale degli stessi al momento dello scavo archeologico, si cercherà di ricostruire le stesse modalità del crollo delle capanne.
Lo sforzo analitico e l’investimento di risorse economiche ed intellettuali consentirà nei nostri propositi di ricostruire le singole capanne nelle loro caratteristiche anche verticali, oltre che orizzontali, e di provvedere alla conservazione delle strutture antiche (fondi di capanna, silos, strutture funerarie), tra cui eccezionale quelle della grande capanna a pianta rettangolare scoperta nel 1993, di cui si è già parlato diffusamente nel numero 78/1996 di Nuovi Orientamenti. Di questa si conserva in ottime condizioni, tanto da poterne ricostruire l’impianto, fatto eccezionale per l’epoca (fine VI millennio), il piano pavimentale in pietrame sciolto di piccole dimensioni, parte del muro perimetrale di fondazione dell’elevato, attestato da gran parte del crollo in intonaco argilloso con le impronte delle strutture lignee portanti, oltre ai reperti archeologici ancora in situ, di cui si diceva prima, che consentono di datarla e di riferirla ad uno dei gruppi di agricoltori-allevatori che occupavano l’area in una fase ancora iniziale del lento processo di neolitizzazione che interessò la regione.
Di qui la necessità di provvedere quanto prima alla acquisizione al patrimonio comunale dell’area archeologica in vista di un parco archeologico che ricostruisca le stesse modalità di occupazione del pianoro di Balsignano da parte delle comunità neolitiche. Peraltro, una tale opera favorirebbe, anche presso un pubblico più vasto, l’immediata percezione dell’importanza delle ricerche archeologiche intraprese e ciò solleciterebbe una evidente crescita di sensibilità nelle nostre comunità.

Gerolamo Fiorentino
Laboratoire de Palèobotanique
Université Montpellier II - Francia