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Il 10 Marzo 1799, fra storia e tradizione popolare

Il 10 Marzo del 1799 viene ricordato come l'assedio di Modugno da parte di un contingente di Sanfedisti che attacca Modugno, della Repubblica Napoletana, ma viene respinto. È una ricorrenza molto sentita in quanto legata all'apparizione della Madonna Addolorata che salvò la città dall'attacco nemico. La nostra rivista, nel febbraio 1982, ha pubblicato un interessante contributo sull'argomento, a firma del prof. Raffaele Macina, che si ripropone per la sua completezza di contenuti e riferimenti. A seguire il canto popolare - "U Nevendanove" - con la traduzione in calce a ciascuna strofa. 
Buona lettura [mp]

Nuovi Orientamenti, anno IV, n. 1 – febbraio 1982

Per la ricorrenza del 10 marzo abbiamo voluto pubblicare questo bellissimo canto popolare che in modo molto sintetico e con rappresentazioni figurate di autentica poesia illustra gli eventi di quella tragica giornata del 10 marzo 1799, quando Modugno subì un tentativo di assalto da parte dei carbonaresi e abitanti di altri comuni limitrofi.
In questo modo vogliamo come rivista non soltanto dare un contributo alla conoscenza del nostro passato, ma soprattutto ricollegarci alle nostre tradizioni storiche e popolari per una loro reale comprensione finalizzata alla riappropriazione di quei contenuti che noi riteniamo indispensabili per ristabilire una identità culturale e storica della nostra città.
Il canto popolare «U Nevandanove» è ormai ignoto ai molti e soltanto qualche vecchietta ricorda la sua musicalità malinconica, ma dolce. É un vero peccato che qui possiamo presentare solo il testo del canto, perché molto del suo valore artistico, della sua serena solennità si perde quando lo si dissocia dalle sue note. La melodia di questo canto provoca in chi lo ascolta un rassicurante atteggiamento di tranquillità e quasi di sicurezza interiore e manifesta una coralità popolare di convinzioni e di partecipazione che, sia pure per un attimo, ti solleva dalla atomizzazione del nostro vivere quotidiano.

I primi versi ci presentano subito la figura di un cantastorie che si presenta per quello che è: non un poeta, né un ignorante (terragne), ma soltanto un uomo di buon senso (de buène sendeminde) che con umiltà chiede un po’ di attenzione perché possa narrare un vero evento storico. E il popolo, incapace com’è di leggere e cosciente di poter apprendere qualcosa soltanto dal cantastorie e non dagli intellettuali del tempo, si raccoglie con curiosità intorno a lui.
Dopo la sua presentazione il cantastorie comincia subito la narrazione degli eventi storici: l’assalto del 10 marzo, operato da tanti piccoli paesi (le tanda paisotte che s’eran aunì erano Carbonara, Ceglie, Loseto, Bitritto, Bitetto, Valenzano, Casamassima, Noicattaro, Gioia, Noci).
È forse qui opportuno ricordare che nel 1799 tutto il Meridione era diviso fra città che avevano aderito alla Repubblica Partenopea, instaurata a Napoli dai circoli illuministici col sostegno militare dell’esercito francese, e città fedeli alla monarchia e alla casa borbonica. Modugno insieme a Bari, Altamura e soprattutto alle città costiere della provincia, aveva aderito alla Repubblica Partenopea e pertanto era continuamente minacciata da quei paesi che invece continuavano a prestare la loro fedeltà ai borboni e a lottare per un loro ritorno a Napoli.
Il 10 marzo del 1799, quindi, gruppi armati provenienti dai paesi citati insieme a donne, vecchi e bambini, tentarono di assalire e punire la Modugno giacobina, ma soprattutto di fare il saccheggio della città per ricavarne un ricco bottino.
Il canto è assai preciso nella narrazione degli eventi storici che presenta: è vero infatti che il gruppo più numeroso degli assalitori era formato dai carbonaresi e che furono questi, con alcuni bitrittesi e bitettesi, a devastare il convento degli agostiniani.

È vero anche che nel convento degli agostiniani essi ammazzarono a coltellate quattro giovani conversi che erano rimasti lì, mentre tutti gli altri frati erano rifugiati nella città murata.
È anche vero che gli assalitori avevano un cannone, ma le cannonate che riuscirono a sparare furono sette e non quattro come dice il canto, ed è anche esatto che una di queste cannonate si conficcò in un palazzo di periferia a ridosso delle mura che si sporgevano sull’attuale via X Marzo; il canto individua lo stabile colpito nel frantoio (u trappite) che si trovava a capo della citata via e che fu poi abbattuto qualche decennio fa. Attualmente sul terreno del vecchio frantoio, i cui proprietari esercitavano la compravendita all’ingrosso di tutti i prodotti agricoli di Modugno, insiste la villa dell’ing. Zaccaro.
Infine è confermato storicamente che gli assalitori si radunarono intorno alle mura di Modugno in mattinata e che il tentativo di assalto si protrasse sino a sera inoltrata, perché, come gli stessi carbonaresi dissero poi, «li era mancata la munizione di polvere e di palle»
Se da una parte il canto si rifa agli eventi storici, dall’altra però non fa alcun cenno alle loro cause reali: non v’è alcun riferimento alla Repubblica Partenopea, ai Sanfedisti, all’anarchia del 1799, alle bande dei delinquenti, al governo repubblicano dell’Università di Modugno.
Esso presenta una situazione metastorica, si distacca cioè dal periodo storico dell’evento che vuole narrare, e illustra un fatto peculiare di Modugno che può anche non aver data o, il che è la stessa cosa, può essere collocato indifferentemente in un secolo qualsiasi c anche nel nostro secolo.
L’atmosfera dell’evento, quindi, non è scandita dal tempo, si adatta a tutti i tempi, è universale, eterna, non assoggettabile a principi e interpretazioni della ricerca dello storico, ed essa è tutta finalizzata a presentarci un fatto straordinario e miracoloso che sfugge a ogni tentativo di spiegazione razionale: l’apparizione della Madonna Addolorata, «de chedde ca mors ne volse liberaje», (di quella che ci volle liberare dalla morte), come dice il canto. E quel «ci » rafforza ancora di più l’atmosfera metastorica, eterna e perciò religiosa del canto: la Madonna Addolorata, infatti, non liberò soltanto i modugnesi del 1799, ma volle liberare anche «noi».

In questa atmosfera le motivazioni dell’evento storico diventano semplici e si colorano di moralità e di autentica religiosità popolare. L’assalto è opera dei carbonaresi che inspiegabilmente si «arrabià gondrì de li medegnise» (si arrabbiarono contro i modugnesi).
Questa semplicità popolare crea ancora la quarta strofa: «Le sa ce tutte u uavévene lu avvise», (Lo sai se tutti avessero avuto l’avviso), nessuno sarebbe stato ucciso c tutti si sarebbero salvati. I fatti non andarono così: la notizia dell’assalto la ebbero tutti, e non poteva essere che così, visto che gli assalitori incominciarono a radunar si dalle prime ore del mattino e l’assalto vero c proprio incominciò alle ore 14.00 e che ancora la devastazione del Convento degli agostiniani si ebbe a pomeriggio inoltrato.
Il tempo perché ognuno, quindi, trovasse riparo fra le mura della città vi fu, in realtà i quattro conversi uccisi furono costretti a restare nel convento, perché furono impegnati a farvi da guardia dai frati e dal priore che invece preferirono mettere la pelle al sicuro, rifugiandosi fra le mura di Modugno.
Il canto, però, ignora tutto questo che ovviamente non poteva essere inserito in quella atmosfera metastorica e di serena religiosità e presenta l’uccisione dei conversi come qualcosa dovuto soltanto alla fatalità, che assolve tutti e acquieta le coscienze. È questo un tipico atteggiamento della nostra tradizione popolare che tende sempre a porre una pace formale e un formale spirito di riconciliazione fra le diverse parti, rinunciando così alla ricerca di colpe e responsabilità.
Addirittura anche agli assalitori la quarta strofa attribuisce un formale senso del pudore: i carbonaresi uccidono sì i quattro conversi, ma non hanno il coraggio di consumare il misfatto davanti agli occhi vigili della statua di San Nicola che stava in una nicchia davanti a loro. Ed essi allora mettono un panno davanti al santo, che così non assiste al barbaro eccidio di quattro giovani seminaristi indifesi, e soltanto dopo aver compiuto questo atto di riverenza religiosa possono ammazzare.
Ed ecco finalmente l’evento straordinario che dovrà essere raccontato ad un altro paese: l’apparizione della Madonna Addolorata. La Madonna appare sul muro del frappeto, dice il canto, e si alzava e si abbassava per invogliare quasi gli assalitori a colpirla e per attirare la loro attenzione su di sè, distogliendola dall’assalto della città. Qui la mentalità religiosa popolare crea una bella immagine: la Madonna, spesso presentata dalla cultura ecclesiastica come luce e perciò stella, raccoglie nel suo manto tutte le palle di fucile e di cannone e le trasforma in stelle, simboli di luce e di pace.

La cronaca di G. Saliani presenta l’apparizione della Madonna diversamente, affermando che i modugnesi furono «visibilmente difesi dalla Vergine Santissima, e da nostri protettori San Nicola Tolentino e San Rocco, come gli stessi nemici ne fanno fede» e che gli assalitori videro su un tetto proprio vicino a un punto debole delle mura «una Signora in bianca gonna, scapigliata, col fazzoletto alle mani, avendo a lato due guerrieri armati di fucile, che andavano dal lato del tetto all’altro, alle quali, e specialmente alla suppusta donna avevano tirate più e più fucilate, ne mai era loro avvenuto di colpirla, dicendole tali, e tante parole ingiuriose, che tremo a rammentarle, non che a lasciarle scritte».
Il canto presenta l’apparizione della Madonna come fatto certo, sul quale non è possibile avanzare alcun dubbio, al pari degli altri avvenimenti di quella giornata del 10 marzo, e qui la fermezza della fede popolare, ponendosi il problema di presenti e future critiche sul miracolo, vuole demolire ogni possibile dubbio, rifiutando con pacata fermezza la tesi di quanti vollero individuare in quella donna che si « alzava e si abbassava su quel muro » una vecchia fattucchiera (masciale).
Qui la forza della convinzione popolare è così corale che bastano poche parole per liquidare la posizione di quei pochi die, con fonato animo denigratorio, hanno osato mettere in discussione l’apparizione della Madonna Addolorata. Queste poche parole esprimono un distacco profondo dell’animo popolare da quei pochi che non sono tenuti in seria considerazione e sui quali il canto stende il manto dell’anonimato, (decèrene ca iève na vecchia masciale), che esprime il massimo del disprezzo e della differenziazione popolare.
I primi due versi dell’ultima strofa, infine, riecheggiano l’atmosfera tipica del partenio che, come è noto, era un componimento lirico tanto caro alla poesia greca destinato ad essere cantato da un coro di fanciulle in onore di una dea. Infatti il canto, rivolgendosi alle donne madri, le invita a mandare in chiesa le loro figlie nubili (vacandì), che qui svolgono il ruolo delle vergini del partenio, perché onorino e chiedano perdono alla Madonna per le colpe commesse da tutta la comunità modugnese.
C’è nella chiusura del canto la tradizionale convinzione popolare che interpreta un evento funestro, nel nostro caso l’assalto del 10 marzo, come conseguenza e giusta punizione divina dei peccati commessi. Le fanciulle modugnesi, quindi, chiedendo perdono e onorando la Madonna, svolgono un ruolo sociale e religioso utile a tutta la comunità, perché intercedono la continua protezione della Madonna su Modugno, allontanando così dalla città il ripetersi di eventi funesti nel futuro.
Altamente poetica, quindi, la conclusione del canto soprattutto per l’evocazione di temi classici che sembrano quasi voler essere confermati dal costrutto latineggiarne dell’ultimo verso (de chédde ca morse ne volse liberajei).

prof. Raffaele Macina

U NEVANDANOVE

A vu signure ci adénze me date,
u nevandanove ve vogghje fa sendì,
ce nan ire pe la Madonne Addelorate,
Medugne aveva sta tutt’abbattute.

A voi signori se mi date retta,
il novantanove vi voglio far sentir,
se non fosse stato per la Madonna Addolorata,
Modugno sarebbe stato tutto abbattuto.

Nan sonde ni puéte manghe terragne,
Gesù m’a date ne buène sendeménde,
Gesù m’a date ne buène sendeménde,
pe fa sendì la storie a chissa gende.

Non sono né poeta e neppure ignorante,
Gesù mi ha dato un buon sentimento,
Gesù mi ha dato un buon sentimento,
per fare sentire la storia a questa gente.

Nuje alle dèsce de marze furema assaldate,
e tanta paisotte s’ir an aunì,
gondrì de li medegnise si arrabbià,
scennì fescenne nande a le Carnalise,
e a Sanda Jestine forene le prime accise.

Noi il dieci marzo fummo assaliti,
e tanti piccoli paesi s’erano uniti,
contro i modugnesi si arrabbiarono,
andammo fuggendo davanti ai carbonaresi,
e a Sant’Agostino furono i primi uccisi.

Le sa ce tutte u uavévene lu avvise
e povere l’aide ci forene angappate,
e povere l’alde ci forene angappate,
se ne fescèrene suse come rabbiate.

Lo sai se tutti avessero avuto l’avviso
e poveri gli altri che furono presi,
e poveri gli altri che furono presi,
se ne fuggirono sopra come cani arrabbiati.

Sanda Necole jinda nu nicchie stève
e chi nu panne nande già chemegghiare,
e chi nu panne nande già chemegghiare,
’nge ne chendarene dèsce cherteddate.

San Nicola in una nicchia stava,
e con un panno davanti lo coprirono,
e con un panno davanti lo coprirono,
gliene contarono dieci coltellate.

E a nalde pajise u uavèvene ce rechendaje,
sendite chèssà storie quande jè pelile,
sparorene finghe a quatte cannenate,
facerene lu pertuse a lu trappite.

E a un altro paese avevano di che raccontare,
sentite questa storia quant’è pulita,
spararono fino a quattro cannonate,
fecero un buco al trappeto.

Na donne ca ’nge stave sopra quel mure
e chedde ca s’alzave e s’abbasciave,
e chedde ca s’alzave e s’abbasciave,
decèrene ca ieve na vecchia masciale.

Una donna che stava su quel muro
e quella che si alzava e si abbassava,
e quella che si alzava c si abbassava,
dissero che era una vecchia fattucchiera.

Guardate quande stèlle tène jinda lu mande
e chidde ièvene le palle ce recevève,
la Madonne le recevève cu mandesine
e quande pall’avève l’ammenave ‘nzine

Guardate quante stelle ha nel manto
e quelle erano le palle che riceveva,
la Madonna le riceveva col manto
e quante palle aveva le menava in grembo.

Da la matine stèttere fing’a la sère,
mo ’ngi’arrevaje lore de vindunore,
iunì che l’alde si la trascherrève:
ame fernute la menizione.

Dalla mattina stettero fino alla sera,
quando arrivò l’ora ventuno,
uno con l’altro parlava:
abbiamo finito le munizioni.

Vu donne ce tenite le file vacandì,
mannatele jinda la chièse a cercà perdone,
’nge stù Matra Marie Addelorate,
de chedde ca mors ne volse libèraje.

Voi donne se avete le figlie nubili,
mandatele nella chiesa a chiedere perdono,
ci sta Madre Maria Addolorata,
quella che dalla morte ci volle liberare.

Disegni Amina Pepe - Ricostruzione eventi del 1799

Altare dedicato a Maria Santissima Addolorata 
Chiesa Matrice di Modugno

Intervista [im]possibile a Sparano da Bari

In una splendida serata di fine estate, mercoledì scorso, 13 settembre, presso l’Associazione «Ortodomingo» in via Lucarelli a Bari, nell’ambito degli eventi culturali tenuti a cura dell’Associazione «Soggetto a piacere» la nostra rivista ha presentato la quarta «Intervista [im]possibile», questa volta a Sparano da Bari, giurista (12º-13º sec) che raccolse, con Andrea da Bari, le Consuetudini baresi.
Come per le precedenti interviste, anche questa è stata realizzata con l’intervento dell’attore Roberto Petruzzelli che ha dialogato con il prof. Raffaele Macina intrattenendo un pubblico interessato e numeroso.
Nel prossimo numero, in preparazione, i dettagli riguardanti l’evento.

Festa di Maria SS. di Balsignano. Rinvio

AVVISO DI RINVIO DELLA FESTA DI MARIA SS.ma DI BALSIGNANO

Per le avverse condizioni climatiche, la festa di Maria SS.ma di Balsignano, prevista per domenica 21 maggio, si terrà sabato 10 giugno con lo stesso programma.

Festa Maria Santissima di Balsignano: VI edizione 2023

DOMENICA 21 MAGGIO 2023

Come sempre, anche quest’anno la festa di Maria SS.ma di Balsignano prevede il momento religioso e il momento di rievocazione storica, che intendono sottolineare i due tratti identitari del nostro casale fortificato.
Un casale, il nostro, che è un caso unico in Puglia e in Italia meridionale, poiché altri casali o sono stati distrutti o si sono sviluppati in centri urbani, all’interno dei quali non sono più riscontrabili le testimonianze medievali.
Per questa sua importanza, Balsignano può e deve diventare un centro medievale di richiamo almeno regionale.
Per chi dovesse venire a Balsignano la mattina, è consigliabile prendere la provinciale Modugno-Bitritto da Via Cornole di Ruccia, perché il tratto fra i due semafori di Via Bitritto sarà interessato nella prima mattinata da una gara podistica.
Tutti gli abbonati alla rivista che interverranno alla presentazione del libro “Gli Incontri del Millennio” riceveranno, in omaggio, una copia dello stesso.Qui di seguito la locandina con il programma.

Ricordando don Giacinto

Il ricordo di don Giacinto attraverso due interessanti contributi: uno di Rosa Petruzzelli, “Ricordando don Giacinto” e l’altro della prof.ssa Cosima Cuppone, “Buon giorno parroco” entrambi pubblicati dalla rivista “Nuovi Orientamenti” (Anno XXXIV n. 152, Ottobre 2012).

“Ricordando don Giacinto” – Era bello la mattina incontrarlo dopo la Messa

Questa estate un po’ bizzarra ci ha portato via due persone indimenticabili: Fulvia e don Giacinto. Due persone che hanno voluto condividere insieme gli ultimi momenti della loro vita.
Io ho sempre conosciuto don Giacinto, ma non ho mai avuto il coraggio di parlargli e di chiedergli consigli, se non in un momento particolare della mia vita. Ricordo che fu proprio Fulvia, che da sempre conosceva i segreti miei più cari, a propormi di incontrarlo: è stato allora che ho scoperto don Giacinto come persona diversa da come sembrava, semplice e paterna.
Io sono stata sempre religiosa e legata agli insegnamenti democratici del Vangelo e spesso ne ho fatto tesoro anche nella mia professione di docente.
Ricordo un giorno in cui l’ho incontrato: si parlava della bellezza della Pentecoste di Manzoni e di quanto fosse difficile conciliare le diverse religioni; le scuole, ormai, sono diventate multietniche e si deve trovare l’armonia per poter accettare senza astio i diversi sentimenti religiosi. Don Giacinto è stato grande nel consigliarmi con tanta semplicità quello che dovevo fare.
Come erano belli i nostri incontri al mattino, fatti a volte di sguardi e di semplici saluti: erano per me una carica per tutta la giornata.
Diciamo la verità, don Giacinto negli ultimi tempi era molto cambiato e lo avevano notato tutti: sempre dopo la sua celebrazione eucaristica a parlare del più e del meno e magari a condividere un caffè con gli altri come se fosse uno di noi. Sì, uno di noi: io ricordo la sua presenza prima austera, quando di lui si diceva “Don Giacinto non vuole questo, non vuole quest’altro”. Invece aveva ragione; voleva essere per noi un padre che non solo con il sorriso deve dare degli insegnamenti, ma con la forza necessaria ed incisiva.
Era una felicità incontrarlo e discutere della quotidianità o magari di cose più importanti; spesso mi sono ritrovata a dirgli; “Devo venire a confessarmi”; e lui mi rispondeva candidamente: “Efinghe e mo ‘ cete ame fatte?’ (E fino ad ora che cosa abbiamo fatto?).. Io speravo che me lo dicesse perché la confessione non deve dividere con una grata, ma deve essere una apertura di cuori da ambo le parti.
In uno degli ultimi incontri mi ha rimproverata con un sorriso, perché non mi vedeva alla sua celebrazione delle ore 11,30; e io gli ho risposto: “Devo preparare il pranzo domenicale per i figli e i nipotini”. E anche in quel momento mi ha donato un grande insegnamento dicendomi: “La prossema volde fa dù maccarune scaldate” (La prossima volta fai due maccheroni scaldati). Ora considerando questa sua frase nel dialetto dei nostri padri, non posso non ammettere che aveva ragione, perché non è la forma a cui tanto teniamo che conta, ma il contenuto.
Ciao, don Giacinto.

Rosa Petruzzelli

“Buon giorno” parroco

Come è difficile dare forma, trovare le parole per esprimere nel linguaggio dei vivi quell’abisso dell’anima che forse solo il silenzio può cogliere ed evocare; tutte le parole sembrano inadatte, quasi profanatone, perché nessuna di esse si addice alla dimensione del silenzio che avvolge la persona che non è più fra noi.
Questa era l’atmosfera delle domeniche di agosto successive a quella in cui don Giacinto ci ha lasciati: un senso di vuoto, la percezione di smarrimento, di incredulità che pervadeva la chiesa dove tutto rimandava alla dolorosa presenza della sua assenza; diversa la messa rispetto agli ultimi mesi in cui, lui malato, ma vivo, noi lo sapevamo fra noi e mai abbandonavamo la speranza di rivederlo, a celebrare.
E pure, a riprendere coscienza della reale situazione, a ripensare a quello che lui ha rappresentato per tanti di noi, a fare veramente silenzio intorno a noi, forse si può cogliere la risonanza della sua parola, del suo messaggio sacerdotale: ritorna alla mente quel suo richiamo a cogliere l’essenziale, a rifiutare quanto di superstizione, di ritualità, di richiamo vuoto ad una tradizione permane ancora in tante forme di religiosità.
Immancabile, nell’esercizio della sua funzione sacerdotale, l’invito a coltivare le nostre migliori facoltà: l’intelligenza, la ragione, la capacità del discernimento, di scegliere, di perseverare nella ricerca, con il riferimento privilegiato alla dimensione della interiorità.
Viva l’attenzione alle encicliche sociali della Chiesa che lo sospingeva ad un impegno caritativo discreto, rispettoso della dignità della persona bisognosa d’aiuto, e l’invito a tutti e in special modo ai giovani di dare il loro contributo nella vita civile, sociale e politica. Non mancava spesso di ripetere un pensiero di don Milani, a lui molto caro (“Occorre fare strada ai poveri senza farsi strada”), accanto a quello “I care” (Mi sta a cuore), per invogliare tutti a farsi carico dei problemi dell’altro.
Amava spesso richiamare quello che forse era il suo santo preferito, S. Agostino, con quel monito che risuona come un imperativo: “Noli foras exire, in interiore homine habitat ventai’ (Non uscire al di fuori di te, nell’interiorità dell’uomo abita la verità). E come non pensare a Socrate, al suo “Conosci te stesso”, alla migliore definizione della condizione umana che sa di non sapere e con pazienza, umiltà, persevera nella ricerca, che sia ricerca di Dio, o di giustizia, o di verità o di senso?
Il suo desiderio intellettuale e mistico di Dio lo rendeva particolarmente sollecito in alcuni momenti della formazione cristiana: lo ricordo parlare dei bambini che dovevano fare la prima comunione, del candore con cui dovevano ricevere Gesù, (lo stesso candore che, sfinito dalla sofferenza fisica, ma non fiaccato nelle capacità mentali, gli faceva dire, guardando il crocifisso della sua stanza di ospedale: “Durante il giorno parlo solo con lui”.
Quel suo desiderio di Dio cercava di trasfonderlo nei parrocchiani nelle varie situazioni del suo ministero sacerdotale (omelie, confessioni, incontri di catechesi), o quando, in occasione delle festività liturgiche, soleva affidare loro dei pensieri tramite semplici foglietti: ricordo, in particolare, quel foglietto verde che invitava ad “andare oltre”, che non voleva solo significare un aprirsi all’infinito, ma anche un non limitarsi alle vicende dolorose o liete del vivere quotidiano, per intravedere ciò che vi è al di là dell’orizzonte.
Anche qui i riferimenti ai classici non mancano. Penso a quel bellissimo sonetto di Giacomo Leopardi, l’Infinito, dove una siepe, che “esclude il guardo dall’ultimo orizzonte”, non gli impedisce però “di fingere nel pensiero interminati spazi e sovrumani silenzi e profondissima quiete”; penso a Eugenio Montale, alla sua volontà di “vivere con dignità, perché “tutte le immagini portano scritto: più in là”.
Un altro suo pensiero recitava: “Un giorno la paura bussò, andò ad aprire la fede”.
Caro don Giacinto, ora si tratta, raccolta ognuno la sua porzione di fede, di superare la tristezza che la tua dipartita ci ha lasciato, di riascoltare i messaggi che ognuno di noi custodisce dentro di sé, di non disperdere i principi fondamentali del tuo magistero e del tuo impegno pastorale. Facendo tesoro di quanto, in modo essenziale e con altrettanto rigore morale, raccomandavi ad ognuno per crescere come persona responsabile, prima che come cristiano.
E sempre ricorderemo la tua forte-fragile voce con cui intonavi, nel mese di maggio, le più belle canzoni alla Vergine: “E l’ora che pia”, “Mira il tuo popolo”, “Dell’aurora tu sorgi più bella”.

Alla messa mattutina delle 7,30.
“Buon giorno”, Parroco.
Cosima Cuppone

Don Giacinto Ardito

Il dodici agosto di dodici anni fa ci lasciava don Giacinto Ardito. Per venerdì prossimo, 12 agosto 2022, la parrocchia “S. Agostino” lo ricorda con due momenti di preghiera, come indicati dalla locandina. Don Giacinto ha collaborato negli anni con la nostra rivista. Si riporta in calce l’intervista che la prof.ssa Cosima Cuppone gli fece a gennaio del 1989, poi pubblicata nel n. 1/2 di “Nuovi Orientamenti” dello stesso anno. L’intervista è particolarmente interessante, perché don Giacinto si sofferma sul suo magistero di parroco, esprimendo principi e considerazioni, che conservano ancora oggi tutta la loro attualità. Naturalmente, i due momenti di preghiera, come indicati dalla locandina della parrocchia, sono aperti a tutti coloro che volessero partecipare.

(R.M.)

Anno XI N.1,2 Gennaio, Aprile 1989
Cosima Cuppone

Il pianeta “parrocchia” nella società attuale

La parrocchia è oggi una realtà profondamente diversa dal passato. Appaiono lontani tempi in cui si assisteva quasi ad un naturale passaggio di molti giovani dalla «militanza cattolica» alla «militanza di in un partito di sinistra», particolarmente nel partito comunista. Nuova spiritualità, volontariato, incontri culturali, apertura al sociale e organizzazione del tempo libero spesso costituiscono oggi il terreno privilegiato dell’azione di una parrocchia, che così concretizza la “rivoluzione” del Concilio Vaticano II, delineata sin dagli anni Sessanta. Questa inchiesta, che ci permette di entrare nel vivo di una parrocchia, quella di Sant’Agostino, può forse offrire un quadro aggiornato del ruolo che la Chiesa esercita oggi in uno specifico territorio.

L’idea di compiere questa indagine è nata da una constatazione: l’attuale società offre a tutti — giovani e non — limitate o quasi nulle occasioni ed opportunità di incontro, di dialogo, di discussione. La crisi di tradizionali forme e movimenti di associazione, da quelle culturali o del tempo libero a quelle partitiche, è sotto gli occhi di tutti e di essa si è già fin troppo parlato perché anche in questa occasione si consumi altro tempo e inchiostro. La Chiesa appare, oggi, una delle poche istituzioni, se non l’unica, ancora in grado di offrire momenti e situazioni di incontro e di aggregazione, specie giovanili, che sollecitano la partecipazione e stimolano il contributo di cui l’individuo è capace, in vista di un inserimento responsabile nella vita di relazione. Una conferma in tal senso ci viene da Modugno, dove tutte le parrocchie manifestano per lo più una intensa vitalità.

La continuity magistero di due parroci

È facile, ad esempio, imbattersi il pomeriggio, la sera, o la domenica mattina in animati gruppi di giovani, bambini, ragazzi ed adulti, che si trattengono sul marciapiede di via Piave antistante alla Chiesa S. Agostino, oppure occupano (non c’è quasi mai traffico di automobili o altri autoveicoli) la stradella via Montepertica. Sono ragazzi e adulti in attesa di una riunione di catechesi, o che hanno da poco finito di partecipare ad una celebrazione eucaristica, o che semplicemente si son trovati lì per consumare un po’ di tempo o per assistere ad una proiezione cinematografica; insomma, viene da pensare alla parrocchia come ad un efficiente centro di aggregazione. Da qui l’interesse a conoscere meglio la vita e l’organizzazione di una parrocchia come quella di S. Agostino per comprendere le ragioni che permettono alla Chiesa di essere oggi più presente e più vitale in un territorio. Ebbene, parroco di «S. Agostino» è don Giacinto Ardito, con il quale è quanto mai opportuno avviare il discorso. L’appuntamento è per le 17 di un pomeriggio di gennaio: «Mi raccomando — aveva premurosamente esortato don Giacinto — non più tardi perché alle 18 ha inizio il catechismo». Non ci vuol molto per verificare la fondatezza della sua raccomandazione: risulta davvero difficile rimanere a parlare tranquilli, sia pure per una buona mezz’ora, perché continuamente qualcuno bussa alla porta e chiede di parlare con lui. Don Giacinto è succeduto a don Biagio Trentadue nella guida della parrocchia e la successione è avvenuta nel silenzio, senza annunci o festeggiamenti. Ed è questo aspetto, di discrezione e di voglia di essenzialità, che a me pare il tratto più qualificante dell’attività di don Giacinto, la cui cultura, il rigore morale, il coraggio intellettuale ho avuto occasione di apprezzare in varie situazioni.
E mi viene naturale stabilire una continuità di magistero fra questi due parroci, in particolare penso agli incontri con i genitori animati da don Biagio. Una espressione di don Biagio allora mi colpì: «È opportuno — egli disse a noi genitori — che i catechisti siano gli stessi genitori». A distanza di alcuni anni mi sembra che, come si dirà dopo, il desiderio di don Biagio sia divenuto oggi realtà grazie a don Giacinto.

La parrocchia il suo territorio, la sua popolazione

Il discorso parte subito con l’analisi della dimensione territoriale della parrocchia e in particolare col riferimento al nuovo Codice di Diritto Canonico che, esprimendo i nuovi principi del Concilio Vaticano II, all’art. 518 così recita: «Come regola generale, la parrocchia sia territoriale, tale cioè che comprenda tutti i fedeli di un determinato territorio».

Alla luce di tale affermazione, chiedo a don Giacinto quale sia la consistenza numerica e la composizione sociale della popolazione che ricade nell’ambito della parrocchia, quanta parte di essa frequenti le funzioni religiose e quanti siano invece i soggetti impegnati con assiduità nelle diverse attività della «Sant’Agostino».

Le persone facenti parte della parrocchia sono circa 10.000. Di queste circa 1.000 frequentano la parrocchia, intendendo per frequenza la sola partecipazione alla messa festiva. Tutte, invece, richiedono i Sacramenti. Tra i 1.000 frequentanti, circa 200 sono presenti nella parrocchia con un ruolo, un impegno, un lavoro. Di questi un numero superiore a 100 è costituito da giovani (dai 15 ai 20 anni), il resto da adulti (dai 30 ai 60 anni). Non si considerano impegnate le circa 800 unità costituite da bambini e ragazzi di scuola elementare e media che frequentano il catechismo. Quanto a composizione socio-economica la realtà della parrocchia è variegata: vi fa parte, infatti, una fascia del borgo vecchio, di modesta condizione; un gruppo, che rappresenta la componente prevalente, appartenente al ceto medio alto; un gruppo impiegatizio e un gruppo impegnato in nuove professioni che ha nei confronti della religione un atteggiamento «post-industriale».

Mi pare di capire, ascoltando i dati sulle persone impegnate nella parrocchia con un ruolo ed un impegno preciso, che da questa fascia sono esclusi gli anziani. Come mai questa scelta che per certi aspetti potrebbe costituire un limite?

In realtà, gli anziani non sono esclusi, ma, di fatto, non si sentono particolarmente motivati a certi impegni, e questo non mi sembra un limite, in quanto ben sappiamo quanto gli anziani preferiscano la frequenza a pratiche devozionali e di culto ai momenti di Catechesi oppure ad altre forme di religiosità. Più che di un limite, si tratta di una scelta.

Con una popolazione così diversa per religiosità e varia per età, come si fa a rendere omogeneo l’intervento della Chiesa?

In verità, la difficoltà è notevole e deriva dal fatto che molti riducono il fatto religioso al momento dei Sacramenti. La religiosità va oltre i Sacramenti, essa deve tradursi in un certo stile di vita, perciò il mio tentativo è di filtrare la richiesta religiosa di sempre riferendomi al discorso Conciliare e ai concetti di una reale vita cristiana da concretizzarsi nel quotidiano.

Culto, religiosità utilitaristica e nuova spiritualità

Il suo discorso incontra resistenze?

Incontra reazioni positive e negative. Quelle positive le registro alla messa domenicale delle 11,30 che vede la partecipazione dei giovani e, in genere, del ceto impiegatizio o di quello da me definito «di religiosità post-industriale». Le reazioni negative, invece, sono determinate dalla difficoltà nell’aderire ad un discorso nuovo che fa perno sulla interiorità e su una religiosità più autentica. È chiaro, ad ogni modo, che il discorso locale non può non rimandare ad un contesto socio-culturale di ordine mondiale, per cui le cause di una mentalità poco religiosa sono di natura generale e si collegano a visioni consumistiche e nichiliste della realtà, di cui sono portatrici tante ideologie.

Se si confrontano fra di loro i 10.000 potenziali parrocchiani, /1.000 frequentanti e i 200 realmente impegnati, mi sembra di poter dire che c’è una evidente sproporzione fra questi tre dati. Eppure la parrocchia è nata parecchi anni fa. Questo vorrebbe dire che essa non ha cristianizzato abbastanza il territorio?

La sproporzione è un dato reale e la esiguità del rapporto fa riflettere. Io penso che molti sentono la religiosità come il semplice venire a Messa o partecipare a momenti di culto; altri la intendono e la vivono in modo più autentico, cioè come un intimo rapporto culto-vita e questi sono pochi.

Come mai la Chiesa non ha saputo cristianizzare nella direzione dell’impegno, mentre il suo magistero ottiene ampi consensi nella direzione del semplice culto?

Noi tentiamo di cristianizzare e lo facciamo in vari modi; mediante incontri di Catechesi per adulti che si tengono ogni giovedì in parrocchia, alle 19,30; attraverso incontri di rione che organizziamo in vari momenti dell’anno e attraverso iniziative di volontariato. I limiti però nascono dagli scontri con questa mentalità: quando, ad esempio, qualche famiglia chiede la benedizione della casa, il sacerdote va con piacere e desidererebbe trovare tutto il nucleo familiare per conoscerlo nella sua interezza, invece quasi sempre vi trova solo una persona e quindi quel momento si limita a un semplice fatto devozionale e non diventa occasione di conoscenza umana, indispensabile perché si inizi un discorso religioso più significativo.

La esiguità del rapporto popolazione – frequentanti-impegnati non si può attribuire al fatto che vivere religiosamente è difficile?

Per me ciò è anche dovuto a un certo modo di intendere la religiosità, una religiosità che assume, per molti, un significato ed un valore utilitaristico. È la religiosità di chi considera la preghiera come una continua richiesta, domanda di favori: «Fammi stare bene, fa’ che mia madre guarisca, che mio figlio trovi un posto, che quello chiuda un occhio…». È evidente che tali atteggiamenti hanno poco o nulla di religioso, come pure è facile che una così fragile religiosità venga meno quando una richiesta non venga esaudita. Ad un sacerdote può capitare di sentirsi dire: «Come vuoi che io creda ancora? avevo pregato per mia madre, ma è morta…».

E allora in che consiste una autentica religiosità?

Religiosità è una esigenza religiosa, è un bisogno interiore di spiritualità, è un progressivo maturare di atteggiamenti religiosi; religiosità è passare da una abitudine alla domanda ad un atteggiamento di formazione e di crescita, possibilmente per dare; è ancora passare da un culto utilitaristico ad uno di adorazione. Un teologo protestante, Bonheffer, sostiene che per molti Dio sia semplicemente un «dio tappabuchi», a cui rivolgersi per avere una grazia.
In questa visuale anche il culto per alcuni santi assume un significato di tornaconto personale e sembra rispondere alla logica dell’interesse, per non parlare di una quasi sostituzione di antichi culti pagani; vedi il culto per S. Anna, o per S. Rita, o per S. Antonio. È sintomatico come in un tale tipo di culto non sia mai rientrato un santo come S. Agostino, il quale ci propone una religiosità impregnata di interiorità.

Da quanto tu dici verrebbe quasi di pensare che la società oggi non sia cristianizzata perché prevale la logica dell’interesse e del tornaconto, e non per l’affermazione di ideologie alternative. È così?

Indubbiamente tutto questo contorno sociale è poco cristiano e il messaggio della Chiesa va contro questo tipo di religiosità corrente. Penso che la Chiesa debba condurre la sua battaglia diffondendo con chiarezza il messaggio del Vangelo e dotandosi anche di mezzi di comunicazione sociale. Penso che il Vaticano dovrebbe avere una stazione televisiva il cui obiettivo dovrebbe essere la formazione di atteggiamenti autenticamente religiosi.

E ai giovani voi riuscite ad offrire questa autentica dimensione religiosa?

Il nostro continuo sforzo è che si passi dalla dimensione utilitaristica ad una religiosità nuova, interiorizzata. Per questo noi facciamo leva sulla Parola di Dio, sulla liturgia (una liturgia partecipativa, che stimola la riflessione e sollecita la comunicazione), sulla conoscenza del mondo e la partecipazione alla vita sociale.

 

Festa Maria SS. di Balsignano. V edizione

Anche quest’anno, domenica 5 giugno 2022, si terrà la V edizione della Festa di Maria Santissima di Balsignano presso l’omonimo Casale fortificato, secondo il programma della locandina in calce indicata.

L’evento avrà inizio alle ore 9,30 con le visite guidate a cura della rivista «Nuovi Orientamenti». Alle ore 11,30 seguirà la celebrazione eucaristica presieduta da don Luigi Trentadue, parroco della chiesa di Sant’Agostino di Modugno. Alle ore 18,00 seguirà la presentazione del volume «E adesso sfogliami per n@vigare nei mille anni di Modugno» a cura dell’IISS «Tommaso Fiore». Alle 19,00 il corteo storico curato dalla Scuola Media «F. Casavola».
Alle 19,20 un’inedita intervista a sua Eccellenza Guerino Capitaneo, castellano di Bari e cavaliere aurato di Polonia a cura della rivista «Nuovi Orientamenti».

L’evento si concluderà con la straordinaria rievocazione del banchetto nuziale di Bona Sforza, riproposto a cura degli studenti dell’indirizzo enogastronomico dell’IISS «Tommaso Fiore» di Grumo Appula.

Per la partecipazione al banchetto, che avrà un numero contingentato di 200 posti per ragioni logistiche, bisogna prenotarsi inviando una mail al Comune di Modugno al seguente indirizzo: modugnomille@comune.modugno.ba.it 

Come per le passate edizioni, dalle ore 9,15 e per tutta la durata della festa, un bus navetta a intervalli di 20 minuti assicurerà i collegamenti, con corse continue e gratuite, da Piazza Enrico De Nicola a Balsignano,  e viceversa.

Vi aspettiamo, per vivere insieme una giornata di cultura e serenità nella magica cornice del Casale di Balsignano.

 

I colori del Millennio

Mostra di arte contemporanea

Presentato a Modugno il libro di storia su Modugno di Raffaele Macina

Pubblichiamo qui, opportunamente rielaborata, la presentazione del libro di storia “Modugno dalle origini al XV secolo”, di Raffale Macina, che il prof. Serafino Corriero ha tenuto nel pomeriggio di domenica 27 giugno nella corte del castello medievale di Balsignano, nell’ambito della IV edizione della festa di Maria Santissima di Balsignano.

Anno XLIII N. 176 Agosto 2021
Serafino Corriero

L’evento al quale noi oggi stiamo qui partecipando è un evento di grande importanza per tre ragioni fondamentali.

La prima ragione è che oggi si presenta qui un libro di Storia, e noi abbiamo bisogno di Storia, perché abbiamo bisogno di conoscere la nostra Storia, che, al di là di quella individuale e famigliare, è anche la nostra storia collettiva, e quindi la nostra storia comunale, e nazionale, ed europea, e, sempre più, globale e perfino planetaria, visto che, dalla diffusione della pandemia da Covid 19 ai sempre più evidenti e pesanti cambiamenti climatici, oggi è addirittura in gioco la sorte stessa del nostro pianeta. Abbiamo dunque bisogno di conoscere la nostra Storia perché abbiamo bisogno di conoscere a fondo la nostra identità all’interno della comunità di cui facciamo parte, che è la nostra polis. Noi uomini, infatti, come sosteneva Aristotele, siamo “animali politici”, cioè esseri viventi che, a differenza degli altri animali, si sono organizzati in comunità politiche, cioè in organismi comunitari formati da cittadini (politeti), cioè da uomini e donne che sono in generale consapevoli dei propri diritti e dei propri doveri, e che solo in virtù di questa consapevolezza possono esercitare la loro sovranità, cioè la loro facoltà di partecipare e di decidere delle sorti della loro comunità, e quindi, per una parte non certo secondaria, della loro stessa vicenda umana.

La seconda ragione dell’importanza di questo evento è che oggi si presenta qui un libro di storia locale, che, come si richiede ad un autentico libro di storia, non ha l’intento di dare lustro, dignità e prestigio a questa nostra nobilissima città, ma si prefìgge di farci meglio conoscere chi siamo noi modugnesi, e perché siamo così, e quindi quale può essere il nostro ruolo specifico all’interno della più vasta comunità regionale o nazionale di cui facciamo parte, e quindi quale percorso noi possiamo individuare per costruire degnamente il nostro futuro. La conoscenza della nostra storia locale, inoltre, ci consente anche di capire più facilmente quei processi e quelle dinamiche, storiche, politiche, economiche, sociali, che regolano la nascita e lo sviluppo, e talvolta anche la fine, di una piccola comunità, sottoposta a stimoli interni (la contesa civile per esercitare il comando) ed esterni (la necessità di difendersi da minacce aliene o l’ambizione di espandere la propria influenza sul territorio). E quindi, attraverso lo studio della nostra storia comunale, e della Storia in generale, noi possiamo capire più facilmente come funzionano ancora oggi quei meccanismi, e come noi possiamo intervenire per orientarli in una direzione anziché in un’altra, che è in sostanza il senso di una coscienza civile e politica. Io sono stato per 35 anni un docente di Lettere nei Licei, ma, tra le diverse discipline che ho insegnato, io considero il mio insegnamento di Storia (greca e romana nel biennio) come quello che più ha inciso sulla formazione scolastica e civile dei miei studenti. Ora, un libro di storia locale (generale) non si improvvisa, ma ha bisogno di raccogliere tutto quello che fino a quel momento è stato scritto sulle vicende di una piccola comunità, e quindi giustamente il prof. Macina rende merito a quegli autori che prima di lui si sono cimentati in questa non facile ricerca. Se non che, questi autori hanno per lo più in passato indagato su eventi limitati e circoscritti, fornendo di essi piuttosto delle cronache o delle relazioni che non analisi e interpretazioni propriamente storiografiche: è il caso, ad esempio, di Vitangelo Maffei, che nel 1774 pubblica appunto una “Relazione delle cose notabili della città di Modugno”, o di un altro precedente Vitangelo Maffei che, come deputato alla Sanità, pubblicò una Cronaca sulla peste del 1656 a Modugno, o di Giovanni De Bellis, che nel 1892 scrive su “Modugno e i suoi principali uomini illustri”. E così, per vedere compilata la prima opera di storia generale sulla nostra città, bisogna attendere il 1970, quando l’arciprete don Nicola Milano pubblica le sue “Memorie Storiche”: opera preziosissima, senza dubbio, ma che presenta anche grossi limiti, sia sul piano del metodo che su quello dei contenuti. Ora, il compito dello storico che viene dopo è proprio quello di superare questi limiti, di vagliare criticamente i documenti utilizzati, di ampliare e approfondire la ricerca alla luce delle nuove indagini compiute sul territorio, di attingere a saggi e studi il più possibile autorevoli. Nell’opera di don Milano, infatti, spesso si indulge a condividere ipotesi piuttosto fantasiose, legate più alla tradizione orale che non alla ricerca analitica, ipotesi per lo più intese a dare lustro alla nostra città e a trasmettere sentimenti di orgoglio e di dignità morale e religiosa. Ebbene, il compito dello storico non è questo; il compito dello storico è prima di tutto quello di procedere all’accertamento dei fatti, e poi ad una loro valutazione all’interno del processo storico nel quale quei fatti si inseriscono. Per questo io, nella presentazione scritta nel libro, mi sono permesso di affermare che, se la Storia, talvolta, forse, può essere maestra di vita, la ricerca storica non è di per sé maestra di nulla, perché essa consiste in una operazione scientifica, fondata su metodi e strumenti che sono dettati dalla opportunità delle circostanze e dalla capacità di indagine dello studioso che se ne occupa. Da questo punto di vista, lo storico è in effetti una specie di detective che deve condurre un’indagine, e quindi si deve affidare a indizi e testimonianze – che nel nostro caso sono costituiti dai documenti -, ritenuti affidabili e importanti ai fini della ricerca. Pertanto, possiamo dire che con questo libro che presentiamo oggi ci troviamo di fronte in realtà al primo vero libro di storia su Modugno, un libro integrale e coerente di Storia, perché il prof. Macina è uno storico che ha già pubblicato diversi saggi monografici, ed è stato per molti anni docente di Storia e Filosofìa nei Licei, e quindi sa ben maneggiare gli strumenti con i quali opera.
Per quanto riguarda, poi, i contenuti di questo libro, è naturale che una nuova metodologia conduca a fare nuove scoperte, come anche a mettere in discussione vecchie convinzioni e consolidate fantasie. Così è, per esempio, per la diffusa opinione che Modugno sia stata fondata dagli antichi Greci provenienti da Medon o da Modon, o che il toponimo Medunio indichi una città posta in medio, o che il nome Modugno provenga da Mottugno, con riferimento alla Motta come primo nucleo abitativo della città, o, ancora, che Modugno sia stata sede vescovile già nel 1025, o – altra pervicace convinzione davvero dura a morire – che il cardo selvatico simbolo della città voglia indicare lo spirito di libertà e di orgogliosa indipendenza dei suoi abitanti, che si sarebbero sempre sottratti a servitù feudali. Questa del cardo selvatico è una spiegazione del tutto infondata, perché, come dimostra il prof. Macina in quello che forse è il capitolo più minuzioso dell’intero libro, il cardo selvatico è dappertutto presente nell’araldica civica, dalla Francia al Canada alla Scozia, come simbolo di protezione e di difesa, e fu introdotto nello stemma di Modugno nella seconda metà del ’300, quando la città si dotò per la prima volta di una cinta muraria ad opera dell’arcivescovo Bartolomeo Carafa, che allora governava la mensa arcivescovile di Bari, a cui Modugno era sottoposta. Ma i risultati a cui Macina perviene nella sua ricerca storica sono davvero tanti. Per esempio, finora nessuno sapeva che Modugno sia stata una piccola contea normanna quando, dopo la conquista di Bari nel 1071, i Normanni, nell’ambito di una struttura politica tendenzialmente centralizzata, diedero vita a tante piccole contee governate da piccoli feudatari, tra i quali un certo Bosus comes castrum Medunei, ovvero Boso, conte, appunto, del luogo fortificato denominato Meduneo.
Il contributo dei Normanni allo sviluppo di Modugno è stato veramente importante. Su questo argomento, il prof. Macina ha aperto uno scrigno, un baule dal quale emergono preziose informazioni sul processo attraverso il quale Modugno, da semplice locus, che è solo un agglomerato di case sparse, talvolta riunite intorno ad un modesto edificio religioso, comincia a costruire il primo nucleo di quello che sarà poi il borgo; e quindi anch’io finalmente ho capito che cos’è la Motta, che fu qui introdotta proprio dai Normanni. La “motta”, infatti, è una costruzione tipica della Normandia, che poi i Normanni diffusero, nel corso delle loro migrazioni, in Francia occidentale, in Germania, in Italia meridionale, e quindi anche a Modugno. La “motta”, infatti, è un’altura, che può essere naturale, come avviene a Mottola (qui, davvero, il nome della città deriva da “motta”), o artificiale, come a Modugno, dove i Normanni costruiscono la “motta mediterranea”, cioè un luogo sopraelevato formato col terreno di risulta di uno scavo circolare che funge da fossato e sul quale viene collocata un’opera di difesa, che può essere una torre o una palizzata, o un’altra cosa del genere, che trasforma quel semplice locus in un castrum o castellum, che non è affatto un castello, come è stato ancora una volta immaginato, ma è semplicemente un luogo circoscritto e fortificato.
Un altro importante risultato contenuto in questo libro è dato dallo studio del processo di romanizzazione del nostro territorio. Anche su questo argomento la ricerca storica è stata finora assai carente, ed è merito specifico di Macina aver ricostruito con accuratezza il sistema viario che interessava il nostro territorio. E così, scopriamo che, oltre alle più note vie Traiana e Minucia, attraverso la nostra zona industriale passava anche la via Gellia, attestata dal ritrovamento di un cippo miliare che segnalava la posizione di quel sito a 52 miglia da Canosa, lungo una strada fatta costruire dal pretore romano Lucio Gellio: cippo che, purtroppo, finì sepolto nelle fondamenta dello stabilimento della FIAT-SOB nel 1970, ma che lo studente universitario Andrea Favuzzi, che poi sarebbe stato mio collega nell’Istituto di Filologia Classica dell’Università di Bari, fece in tempo a descrivere e interpretare.

La terza ragione, infine, che rende importante l’evento di oggi, è la più nota: siamo a giugno del 2021, e questo libro di storia viene presentato nell’ambito delle celebrazioni del Millennio della nostra città, visto che il suo più antico nome Medunio ricorre per la prima volta in una pergamena del maggio 1021, custodita presso l’Archivio della Basilica di S. Nicola a Bari, che noi stessi abbiamo potuto personalmente visionare e studiare. Ma non è, questa, una pura coincidenza: in realtà, il prof. Macina ha lavorato negli ultimi anni al suo libro di storia proponendosi di pubblicarlo proprio in occasione del Millennio; e ci è riuscito!
E di questo noi lo ringraziamo, augurandogli di completare presto l’opera con la pubblicazione del secondo volume, che è già in preparazione.

Quando la storia conquista i cuori e la mente

La IV edizione della festa di Maria SS.ma di Balsignano ha offerto momenti di autentica coralità ai presenti

Anno XLIII N. 176 Agosto 2021
Caterina Sassi

Giunta alla sua quarta edizione, è tornata, domenica 27 giugno u.s., la festa dedicata a Maria SS di Balsignano. Una festa “intima”, senza particolari clamori, ma, proprio per questo, sentita e partecipata da un nutrito numero di lettori ed estimatori della rivista “Nuovi Orientamenti”. Un’edizione particolare, quella di quest’anno, perché inserita in ulteriori eventi, concomitanti con le celebrazioni del Millennio della città di Modugno.
Eventi programmati in particolare dal direttore della rivista, Prof. Macina, ricercatore, in grado di trasformare i “tempi spenti” di una inarrestabile pandemia in una preziosa opportunità per ulteriori ricerche ed approfondimenti approdati, alla fine, nella pubblicazione del volume: “Modugno dalle origini al quindicesimo secolo”.
La celebrazione eucaristica, dopo un lungo tempo di forzato isolamento da dimenticare, e non ancora superato, ha richiamato tanti estimatori della rivista, che si sono ritrovati nella corte dell’antico Casale per condividere la prima fase della cerimonia, di ispirazione religiosa, nel raccoglimento di una messa celebrata dal parroco don Luigi Trentadue, che, puntualmente, riesce a coinvolgere tutti i presenti.
L’altare, allestito al centro della corte, era arricchito, oltre che dal noto dipinto della Madonna, realizzato dalla pittrice Daniela Saliani, da un secondo, suggestivo dipinto dell’artista Vincenzo Pentrelli, che ritrae la figura di un crociato in atteggiamento di preghiera e raccoglimento, in una tappa di sosta e riposo nell’antico Casale, per poi proseguire il suo viaggio verso luoghi sacri e lontani. La celebrazione eucaristica, in un suggestivo intreccio di letture, suoni e canti, offriva ai presenti l’opportunità di assaporare il silenzio ed il senso di un raccoglimento interiore che solo le poche aree di natura incontaminata possono regalare a chi è in grado di coglierne i segni e le sensazioni. Con la benedizione impartita a fine messa da don Luigi, si concludeva la prima parte della manifestazione che sarebbe proseguita nelle ore pomeridiane, con ulteriori visite guidate, quindi con la presentazione del nuovo libro e con una originale pièce teatrale, intitolata “Intervista al conte Rocco Stella”, illustre personaggio modugnese, poco conosciuto, nonostante gli sia dedicata una strada centrale della città. Alle 18,00 in punto, tutto era pronto per la seconda parte della manifestazione, col prof. Macina che rivolgeva i suoi ringraziamenti alle Istituzioni ed alle Associazioni che hanno collaborato alla realizzazione della manifestazione; un particolare ringraziamento egli ha rivolto agli amici “Sottoscrivi per il Millennio”, che hanno sostenuto le spese di stampa del libro, le cui motivazioni sono state illustrate da un breve intervento di Serafino Bruno. Macina ha poi fatto riferimento ad alcune sue personali motivazioni che lo hanno prima ispirato e poi orientato verso quest’ultima fatica storico-letteraria, che egli ritiene sia un atto dovuto verso la sua famiglia, che per gli ha consentito di immergersi totalmente in un’impresa “ardua e complicata”, quale può essere quella di delineare la storia di una città. I componenti del suo nucleo familiare vengono citati, in premessa, uno per uno, ma una forte commozione investiva sè stesso e tutti i presenti, quando ha evocato il nome della sua adorata figlia Anna, che – egli dice – con alcune domande ben mirate, è riuscita ad “illuminare il suo cammino” dando forza e vigore ad un lavoro che, diversamente, non sarebbe mai stato realizzato. Aggiungeva poi una seconda motivazione legata alla straordinaria ricorrenza del Millennio, che agli occhi di chi si occupa di storia riveste una grande importanza, per cui egli ha avvertito l’esigenza di mettere a disposizione della comunità modugnese una nuova ricostruzione della propria storia che l’aiuti a riscoprire la sua identità.
Concludendo, sottolineava l’importanza di poter contare su un sistematico rapporto di collaborazione con una persona, peraltro portatrice di precise competenze filologiche e linguistiche, con cui discutere i testi che di volta in volta venivano scritti.
Con queste parole, collegate ad un profondo ed affettuoso senso di riconoscenza, il prof. Macina introduceva l’intervento del suo collaboratore storico, nella figura del prof. Serafino Corriero che, con la sua raffinata dialettica e l’approccio diretto che usa con chi lo ascolta, entra nel tema della serata, affermando che è assolutamente necessario conoscere la nostra storia, per meglio individuare non una identità limitata al proprio sé, ma un’identità più ampia ed estesa alla comunità di cui si è parte. La stesura di un libro di storia locale, da parte dell’autore e, successivamente, la fruizione di coloro che ne conosceranno il contenuto, consentirà di individuare le numerose tracce lasciate dal tempo e di comprendere i meccanismi delle profonde trasformazioni sociali che si sono susseguite nel corso dei secoli. Il prof. Corriero afferma, anche, che gli studi del prof. Macina si ricollegano a quanto già scritto da Vitangelo Maffei, Giambattista Saliani, Nicola Trentadue, Padre Innocenzo, Vito Faenza, Alberto Romita ed il compianto don Nicola Milano, autore dell’ormai introvabile volume, intitolato “Modugno. Memorie Storiche”; autori, questi, che hanno lasciato sicuramente tracce importanti, ma che evidenziano anche limiti, oggi in contrasto con le nuove scoperte archeologiche e le nuove ricerche.

Limiti, ad esempio, sull’origine della nostra città, erroneamente attribuita ai Greci ma, in realtà, riconducibile alla seconda dominazione bizantina, o sullo stesso nome “Modugno” che non si capisce come possa derivare da “Mottugno”, come è stato tradizionalmente ritenuto. Il libro, di fresca pubblicazione, è paragonabile ad un prezioso scrigno che rivela, con documenti alla mano, nuove interpretazioni e propone conoscenze ben documentate e basate su fonti scientificamente attendibili. Ogni pagina cattura l’attenzione del lettore, trascinandolo in una specie di “mare aperto”, per usare l’affascinante metafora del prof. Macina, quando paragona la fase iniziale della stesura di un libro ad una imbarcazione che, sciogliendo gli ormeggi, si accinge a prendere il largo, che la porterà lontano, tenendo, tuttavia, ben salda la rotta che la riporterà in porto.
Si sarebbe tentati di commentare altre pagine, ma sarebbe un errore sottrarre al lettore il piacere di farlo personalmente, per cui è opportuno passare al clou della serata, compreso nell’ultimo punto in scaletta del programma, con una impareggiabile intervista intercorsa tra il prof. Macina (che impersonava la figura di uno storico modugnese) e, a trecento anni dalla sua morte, il Conte Rocco Stella, che assumeva il volto di Roberto Petruzzelli. Nessuno avrebbe mai pensato di trovarsi dinanzi ad una trasformazione della figura seria e compassata del prof. Macina in un personaggio dotato di un’insospettabile carica di pura ironia, perfettamente calato in un ruolo teatrale, che dialogava col conte Rocco Stella, tornato chissà come dall’aldilà per rivedere quello che, ai suoi tempi, era solo un paese unito, divenuto oggi una “città moderna”, che rischia di perdere sempre più la sua anima.
Un’intervista surreale che affrontava temi reali, come l’attuale modo di vestire dei giovani, le antiche mura e le porte di Modugno, abbattute nel 1821, la scomparsa dell’antico pozzo fatto costruire dalla Regina Bona ed oggi interamente ricoperto da un lastrone in cemento, nella zona adiacente l’ex convento dei Cappuccini, l’ubicazione del superbo palazzo della famiglia Stella e l’allontanamento, a soli diciotto anni, del giovane Rocco, da Modugno, per motivi personali e famigliari.
Impercettibilmente l’intervista abbandonava l’iniziale chiave ironica, per collocarsi sulla figura del giovane Conte e sulle competenze diplomatiche che gli consentirono di abbandonare il ruolo di semplice soldato, per divenire il più potente ministro d’Europa.
Alla fine, all’ipotetica domanda di quale potesse essere il “tratto identitario” più importante da tutelare nella nostra città, l’altrettanto ipotetica risposta era “LA COERENZA” e l’attenzione verso gli altri, soprattutto verso i giovani, che costituiscono l’ideale continuità dei valori fondanti della comunità.
Prima dei saluti finali, un altro momento di attenzione è stato richiesto ai presenti per ’’salutare” e ricordare altre figure storiche, giovani e meno giovani, legate alla rivista, che hanno accompagnato, passo dopo passo, prima la nascita e, successivamente, le tappe più significativamente da essa raggiunte.
Parliamo di Cenzino Romita, Anna Longo Massarelli, Michele Cramarossa, Antonio Longo, Lello Nuzzi, Franco Gnan: nomi e volti stagliati nitidamente nei nostri ricordi per quanto ci hanno lasciato sul piano umano, professionale ed artistico e che forse, chissà, da un’altra dimensione di vita continuano a seguire il percorso della rivista e del suo direttore, la cui fervida mente continuerà a dispensare ancora tanti semi di autentica cultura.
In chiusura, la parola passava al sindaco Bonasia che affermava: “Cancellare la storia, come si è tentato di fare negli ultimi anni verso quanti si sono impegnati nel recupero di Balsignano, è uno dei crimini peggiori che si possano commettere”. Aggiungeva poi che il Casale di Balsignano è un luogo ancora da conoscere e, soprattutto, da tutelare, perché è uno scrigno che custodisce segreti che la ricerca storico-archeologica deve ancora mettere in luce; infine, augurava al prof. Macina di conservare l’energia, il vigore e l’entusiasmo con cui ci riporta alle origini della nostra storia!

Note del direttore della rivista:
Un particolare ringraziamento va a Giovanna Crispo, a Daniela Saliani e agli studenti liceali Tomas Catalano, Adriana La Pietra e Davide Romita, che per tutta la giornata della festa hanno guidato i visitatori alla scoperta del nostro casale fortificato medievale. Ricordiamo che nel 2017 “Nuovi Orientamenti” organizzò un apposito corso per formare le nostre guide, preoccupandosi soprattutto di ottenere la presenza di un nutrito gruppo di giovani studenti.

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