AVVISO DI RINVIO DELLA FESTA DI MARIA SS.ma DI BALSIGNANO
Per le avverse condizioni climatiche, la festa di Maria SS.ma di Balsignano, prevista per domenica 21 maggio, si terrà sabato 10 giugno con lo stesso programma.
AVVISO DI RINVIO DELLA FESTA DI MARIA SS.ma DI BALSIGNANO
Per le avverse condizioni climatiche, la festa di Maria SS.ma di Balsignano, prevista per domenica 21 maggio, si terrà sabato 10 giugno con lo stesso programma.
DOMENICA 21 MAGGIO 2023
Come sempre, anche quest’anno la festa di Maria SS.ma di Balsignano prevede il momento religioso e il momento di rievocazione storica, che intendono sottolineare i due tratti identitari del nostro casale fortificato.
Un casale, il nostro, che è un caso unico in Puglia e in Italia meridionale, poiché altri casali o sono stati distrutti o si sono sviluppati in centri urbani, all’interno dei quali non sono più riscontrabili le testimonianze medievali.
Per questa sua importanza, Balsignano può e deve diventare un centro medievale di richiamo almeno regionale.
Per chi dovesse venire a Balsignano la mattina, è consigliabile prendere la provinciale Modugno-Bitritto da Via Cornole di Ruccia, perché il tratto fra i due semafori di Via Bitritto sarà interessato nella prima mattinata da una gara podistica.
Tutti gli abbonati alla rivista che interverranno alla presentazione del libro “Gli Incontri del Millennio” riceveranno, in omaggio, una copia dello stesso.Qui di seguito la locandina con il programma.
Dopo le monografie dedicate al Casale di Balsignano, al nostro dialetto (A Medugne se disce adacchessè) e agli editoriali, proponiamo quella riguardante le «Contrade di Modugno», realizzata sulla base di un interessante studio, a suo tempo eseguito dalla prof.ssa Lucrezia Pantaleo Guarini. La rassegna comprende gli articoli pubblicati su «Nuovi Orientamenti», dal 1982 (Anno IV, n. 3 Giugno) al mese di agosto 1984 (Anno VI, n.4 Luglio, Agosto) che riproponiamo all’attenzione dei Lettori.Come sempre, l’augurio è di una buona lettura in compagnia della nostra storia e delle nostre tradizioni.
marco pepe
Le contrade di Modugno
Riepilogo precedenti rassegne pubblicate nel nostro sito internet (www.nuoviorientamenti.it), nella rubrica “Monografie”:
Balsignano, agosto 2022
A Medugne se disce addacchesse, ottobre 2022
Editoriali, novembre 2022
Le contrade di Modugno, aprile 2023
La rivista “Nuovi Orientamenti” augura una Santa Pasqua di pace e serenità.
"Nella processione dei Misteri si riflette un'antica pietà popolare che rinvia a credenze miracolistiche e a pratiche ancestrali di una comunità. Da San Pietro, che non fa buona guardia del vino, alla Veronica, che propizia il ritrovamento di tre chili di agnello, da Cristo alla colonna, che moltiplica la cera, ai bambini, che oscurano il Calvario, tutto in questa processione concorre ad esprimere i misteri di un popolo".
Ne ha parlato la prof.ssa Dina Lacalamita Nuzzi in un articolo che si ripropone integralmente. (Nuovi Orientamenti, Anno XI, [1989] n. 1,2).
Buona lettura
Gesù Bambino gettato fra le braccia della madre
In occasione della festa veniva, dunque, attuato un «maritaggio», cioè veniva donato il corredo o la «dote» ad una ragazza sorteggiata fra le zitelle orfane di Modugno; per lo stesso valore si donavano delle camicie ai poveri. Doveva essere molto importante, in quei tempi, per una ragazza avere la dote, non solo per disporre di un minimo di biancheria che servisse per dar vita alla famiglia che si andava formando, ma anche per potersi semplicemente sposare!
Fin qui l’aspetto caritativo della festa che oggi non si celebra più. Ma vediamo come si esplicava la consuetudine culturale e religiosa: la processione partiva dalla chiesa di Sant’Agostino verso la Matrice o chiesa dell’Annunziata c, mentre il predicatore ufficiale faceva il discorso sulla Passione, si bussava, si entrava e il Cristo veniva «buttato» fra le braccia della Madre. La drammaticità di tali gesti e l’emotività che da essi scaturiva sono da accostare a quelle offerte dalla processione dei Misteri, che si svolgeva esattamente la settimana successiva e che si svolge ancor oggi, mantenendo viva una tradizione secolare.
Rivive la storia della processione dei Misteri
Fra le innumerevoli forme ed espressioni di religiosità popolare, quella dei Misteri è la più vicina a quelle sacre rappresentazioni che, nel Medioevo, ebbero grande sviluppo e risonanza: un vero e proprio dramma basato su episodi della Passione, che si sviluppò in Italia con forme analoghe a quelle del stère francese, del miracle-play inglese e dell’auto-sacramental spagnolo.
Di quel periodo storico famose sono le Laudi di Jacopone da Todi, pervase da un certo disprezzo per le vanità umane, da un desiderio di patimento e di sofferenza, esasperazione della rigida regola francescana fatta propria dagli «spirituali». Si possono ancora ricordare le processioni dei flagellanti, che, sfilando per le strade, si autopunivano per espiare le proprie colpe. La stessa Via Crucis fu fatta conoscere in Italia dai pellegrini di ritorno dalla Terra Santa, giacché essi stessi avevano rivissuto il cammino verso il Calvario, fatto da Gesù Cristo. Nei secoli successivi la drammaticità degli eventi rievocati provocò il moltiplicarsi degli uffici votivi della Passione: in onore delle Santissime Piaghe, delle cadute di Gesù Cristo, del Cuore trafitto, degli strumenti della Passione, dei personaggi della Passione (Giuseppe D’Arimatea, Longino, Maria Maddalena).
Alcuni studiosi affermano che, in genere, quelle forme di religiosità sono frutto di un certo periodo storico di un popolo, con il suo grado di civilità e di maturità. Tuttavia, ci sono degli aspetti legati a preesistenti riti calendariali pagani, celebrati in occasione dell’equinozio di primavera che, come si sa, determina la Pasqua. Ad esempio, le battiture sui banchi della chiesa, dopo il Canto dei notturni del Triduo sacro, erano gli strepiti stagionali o riti stagionali di passaggio fatti per cacciare gli spiriti, e si rifacevano addirittura alla romanità classica.
È molto antica anche l’usanza di conservare la cenere per colmare i piatti che facevano da supporto alla lampada a olio dei cosiddetti «sepolcri», o per cospargere le piantine delle fave (piatto dei morti); antico è pure il gesto di fare rumori e scuotere mobili per intimidire gli spiriti. A Modugno si usa ancora preparare già dal mercoledì delle ceneri quelle piantine, tenendole al buio, affinché — senza… luce — senza l’influenza dell’azione clorofilliana che, come si sa, avviene in presenza di luce, mantengano il colore più chiaro possibile. Le piantine adornano ancora, numerose, i «sepolcri», insieme ad altre piante e fiori multicolori, ma una volta erano i fiori dei poveri.
Gli eventi della Passione non sempre hanno mantenuto un carattere di drammaticità, ma spesso hanno assunto un aspetto prettamente folcloristico e popolare. In alcuni paesi, soprattutto nell’Italia meridionale, si rappresentano gli episodi dell’incoronazione di spine (Diamante, in Calabria), la flagellazione, l’incontro di Gesù con la Madre. A proposito di quell’incontro o «Vi cuntnua»,come viene chiamata in Calabria, viene subito alla mente quello che fino al 1953 si riviveva a Modugno con la processione dell’Addolorata.
I MISTERI DI MODUGNO FRA STORIA ED ANEDDOTICA
CRISTO NELL’ORTO
Particolare vivo di questo Mistero è quello di porre accanto alla statua un piccolo ulivo a ricordo della preghiera di Cristo fra quegli alberi. La famiglia che custodisce la statua per tutto l’anno è quella di Luigi Maggi, il più anziano dei soci, al quale il compito è stato tramandato, di generazione in generazione, dal 1897. Per questa famiglia è sempre stato un grande onore custodire la statua e allestire il Mistero è già una festa.
SAN PIETRO
La statua di San Pietro, appartenente alla famiglia Trentadue, risale al 1928 e fu voluta, per devozione, da Angelo Lacalamita, detto «u cucche», al quale era apparso in sogno il santo. Detto Mistero era conservato nella casa del Lacalamita, in una nicchia chiusa da un vetro. Come era d’uso una volta, lo stesso stanzone era ingresso, cucina e talvolta anche bottega: il padrone, che vendeva vino, un giorno, verso l’alba, fu svegliato dal dirimpettaio, il quale, con voce concitata lo chiamava, avvisandolo che scorreva vino dal portone fino alla strada. Il Lacalamita, adirato, se la prese con San Pietro: «Ma cosa ti tengo a fare in casa mia se non sei buono neanche a guardarmi il vino?» Anche questo dovette sentirsi dire il Santo! Sbollita l’ira, però, la devozione e la tradizione non vennero meno e non vengono meno ancora oggi.
CRISTO ALLA COLONNA
Il Mistero, originario dell’Opera Pia, prima che fosse affidato alla famiglia Pascazio, dalla quale tuttora viene custodito, era uno di quei Santi che nessuno voleva, forse perché fra i più pesanti. Un vinaio modugnese propose a Giuseppe Pascazio di prenderselo in custodia, assicurandogli che si assumeva lui l’onere delle spese di allestimento per quell’anno: si era nel 1927.
Furono pertanto ordinati cinque quintali di cera che, a festa finita, sarebbe stata rivenduta, come d’usanza, al ceraiolo per riciclarla (economia dei tempi!). Il giorno dopo la processione, anziché trovare i cinque quintali, quanti cioè ne poteva accogliere la base della statua, se ne trovarono, con stupore di tutti, sei! Per una maggiore sicurezza si andò a pesare la cera su un’altra bilancia, ma anche questa segnò la stessa quantità. Il detto vinaio con quello che guadagnò dalla vendita della cera in eccesso, pagò tutte le spese sostenute: come dire che Cristo alla colonna si era autofinanziato! L’evento fu interpretato come segno di particolare favore celeste per il Pascazio, al quale si unirono molti ortolani che negli anni successivi si fecero promotori dell’iniziativa di allestire quel Santo… che nessuno prima voleva. Presero allora l’abitudine di adornare il Mistero con le primizie degli orti o della campagna: un fascio di cicorie, un cavolo, un ramo di mandorlo fiorito, quasi per ingraziarsi Dio affinché assicurasse un buon raccolto.
ECCE HOMO
Originario del Sacro Monte di Pietà, è da molti anni custodito dalla famiglia Massarelli e intorno ad esso si narrano diversi aneddoti. Questi, vivacemente descritti da Anna Longo Massarelli nel N. 2 – 1987 della nostra rivista, testimoniano sia la simpatica intraprendenza di chi voleva aggiudicarsi la «macchenétte de Criste a la cannèdde», sia il modo in cui veniva interpretata la volontà divina per alcune manifestazioni o fatti della vita quotidiana. Non c’era anno che non scoppiasse qualche lite, spesso provocata ad arte, per aggiudicarsi la statua, ma la tradizione alla fine veniva rispettata: era una questione d’onore poter «uscire» col Santo.
CRISTO CON LA CROCE ADDOSSO
Responsabile e custode di tale Mistero è la famiglia Vernola, ma i soci sono tanti. La statua, di legno di pero, una volta era illuminata da candele a cera, ora, invece, da luci a batteria. Da circa vent’anni è stato ammodernato raddobbo, in particolare la cupola e la colonna di legno massiccio, per cui il peso si è dimezzato: dai sette-otto quintali si è passati ai quattro attuali.
SAN GIOVANNI
Nato ad opera di tanti soci nel 1894, ora è custodito cd abbellito dalla famiglia di Pascazio Saverio. Esso fu aggiunto ai primi Misteri perché mancava la figura di quel santo tanto vicino a Gesù durante la Passione. Il Pascazio era tanto preso dall’avvenimento «du monde» che se lo sognava spesso e grande era la cura che riponeva nell’allestirlo. La presenza dei bambini, che per ex voto venivano vestiti come San Giovanni e precedevano la statua durante la processione, lo faceva adirare, giacché la gente finiva per guardare più loro che il santo!
IL CALVARIO
Il Mistero di Cristo in croce fa capo alle famiglie soprannominate rispettivamente «la mècce» e «Ombrelle», Cavallo e Ruccia, ma ci sono tuttora diversi altri soci. La prima statua del Calvario con la Maddalena ai piedi, voluta dal Sacro Monte di Pietà, fu sostituita con la nuova ai primi del novecento: autore un leccese. Nel 1914 la statua subì un grosso danno a causa del tarlo e fu chiamato un austriaco per il restauro: il legno fu ridipinto e l’intervento in tutto venne a costare cinquantotto lire. Una volta lo squilibrio del peso provocò la lussazione dell’omero a Edoardo Romita, quando la processione dovette affrontare una cunetta. Per questo ed altri motivi, fra cui il deperimento, la croce, tanto alta, fu rifatta nel 1956 e, sotto la nuova, fu posto un ceppo di ulivo, quasi ad indicare il Monte Calvario. A proposito del Calvario si racconta di un modugnese che, per un ex voto, donò cinquecento lire di carta che il Cristo portò legata al braccio per vent’anni. Negli anni Trenta la cifra doveva avere un valore considerevole e sicuramente avrebbe potuto far fruttare un interesse economico notevole, ma anche questo era un modo per manifestare la propria devozione.
CRISTO MORTO, OVVERO LA “NACHE”
È un Mistero che ha origine dall’Opera Pia e conta venti soci che si tramandano l’adesione di padre in figlio: il più anziano è Domenico Lacalamita. La statua origina ria, sostituita nel 1952, è custodita nella chiesetta di Sant’Anna e reca incisi i nomi dei soci fondatori. L’addobbo floreale, molto semplice, è ogni anno costituito da garofani bianchi e rossi. Segno particolare che accompagna questo Mistero è il dolore e il silenzio manifestato dalle donne che, vestite a lutto, formano un cordone intorno alla «nache», termine dialettale, molto suggestivo e colmo di tenerezza, che indica la culla.
LA VERONICA
È di proprietà di diversi soci fondatori, il più anziano dei quali è Antonio Longo. Il Mistero nacque, per così dire, nel 1931, il giorno del Venerdì Santo, quando un gruppo di amici decise di «fare un santo». Essi si recarono da un’anziana donna modugnese per essere consigliati (Quanta stima e fiducia nella saggezza dei vecchi!). La scelta cadde sulla Veronica che mancava nella processione «du monde». Ciascuno di quegli amici da quel giorno fece sacrifici per risparmiare e mettere da parte i soldi necessari per comprare la statua: quattrocento lire. Dopo sei mesi, la consegna. Nel 1933 fu allestita anche la base; queir anno la Veronica «uscì» per la prima volta, e furono i devoti ad offrire i fiori. Molti anni dopo, la cupola fu eliminata per il peso. Anche la Veronica come molte altre statue più nuove fu prodotta da una ditta leccese: la «Giuseppe Manzo».
L’ADDOLORATA – LA PIETÀ
La società costituita intorno a questo Mistero è formata da ventiquattro soci e l’adesione viene tramandata di padre in figlio. La famiglia che ne cura la custodia e l’allestimento è quella di Giuseppe Corriero. «Vestire la Madonna» è un rito che ogni anno si ripete con grande devozione: il mercoledì santo si preleva la statua dalla chiesetta di Santa Lucia e le si cambiano camicie e vestiti «vecchi» con quelli «nuovi». Guardando da vicino quei gesti si può toccare con mano l’umiltà e la gioia di chi li fa: non si può nascondere una certa emozione nell’osservare il viso della statua così piccolo ma espressivo nel dolore e quella figura così esile e smarrita nel pur capace vestito nero. Il viso della statua è quello originale del Monte di Pietà, come pure l’aureola, il pugnale d’argento, il busto e le camicie, mentre sono stati rifatti il vestito di pizzo e la base che reca la data del 10 febbraio 1953. L’angelo che sovrasta la statua e che reca nelle mani un fazzoletto col volto di Cristo, è originale del Monte di Pietà ed è custodito dalla famiglia Tricarico. Nel corso di tanti anni i devoti hanno donato gioielli in oro per grazie ricevute: quell’oro fuso è stato usato per forgiare un nuovo pugnale ed una «M», lettera iniziale di Maria.
LE TRE MARIE E LA DEPOSIZIONE
I due Misteri sono nati insieme nel marzo del 1946, il primo per desiderio di Tommaso Lomoro, il secondo per la devozione di quattro fratelli: Giuseppe, Agostino, Antonio e Filippo Corriero. Si era nell’anno 1945: il Lomoro insieme con i Corriero, decisi nella propria scelta, intrapresero il viaggio verso Lecce, diretti alla ditta «Manzo» per ordinare la statua. Ad un chilometro da Bari, sulla strada, trovarono un involto pieno di tre chili di carne d’agnello, probabilmente smarrito da «ne trainière» (un conduttore di traino) che li precedeva. Dati i tempi assai magri, quello fu un vero ben di Dio! La cosa fu interpretata da tutti come segno di prosperità e benessere. In modo particolare per il Lomoro, la scelta di allestire un Mistero nascondeva un segreto desiderio: avere un figlio. Ebbene, a distanza di un anno da quel viaggio, quando doveva «uscire» il Santo per la prima volta, in casa sua nasceva una bambina, tanto desiderata! Le statue delle Pie Donne costarono trentaduemila lire. Esse sono custodite attualmente nella chiesa delle Monacelle. Durante il colloquio con il Lomoro è emerso un grande desiderio di vedere restaurata questa chiesetta e quella di San Vito; quest’ultima sicuramente ha avuto molta importanza nella storia della processione dei Misteri, in quanto prima sede della Associazione caritativa Opera Pia del Sacro Monte di Pietà. Accanto ad essa infatti sorgeva l’ospedale, unico ricovero per i malati poveri modugnesi.
LA MADDALENA
Voluta da Paolo De Benedictis, deceduto poi durante la seconda guerra mondiale, è stata, dal 1956, allestita sempre dalla stessa famiglia con grande cura e devozione. Negli ultimi anni è stata affidata a Raffaele Falagario. È da ricordare che il vecchio Mistero del Calvario aveva la Maddalena ai piedi: di quest’ultima si prendeva personalmente cura una certa Anna Cavallo, moglie di Giacinto D’Aprile. La donna pettinava i lunghi capelli biondi e vestiva la statua: era un rito che si ripeteva ogni anno per un ex voto.
IL LEGNO SANTO
Negli anni Cinquanta la piccola scheggia della Croce della Passione di Cristo fu donata, con documento di autenticità, alla Parrocchia di Sant’Agostino dalla contessa Ricciardella. Nel 1964 per la prima volta i giovani della parrocchia portarono a spalle il Legno Santo, ma da alcuni anni esso viene portato fra le mani dal sacerdote che accompagna la processione.
SPIGOLANDO FRA I MISTERI
Durante la processione del Venerdì di passione, davanti ad ogni Santo portato a spalle, si possono notare dei ragazzini provvisti di mazze: queste sono fornite di ganci che servono ad appoggiare le assi delle basi, dando modo così ai «portatori» di riposare o di procedere al cambio, durante le fermate. È anch’essa una consuetudine che pare ancora viva e abbastanza sentita dai piccoli. Dagli ultimi anni dell’Ottocento fino ai primi decenni del Novecento le manifestazioni del Venerdì Santo erano e, in parte sono, ancora svolte in costume: alcuni usavano vestirsi con gli abiti della confraternita religiosa alla quale appartenevano, ma ciò poi cadde in disuso. Reminiscenza di quell’abbigliamento è la «scazzétte», piccolo copricapo nero di velluto, spesso impreziosito di ricami scintillanti, simile a quello ebraico. Negli ultimi anni anche la «scazzétte» è andata in disuso. Per alcuni partecipanti sono rimasti i guanti, la cravatta e l’abito nero, che sono d’obbligo per quei Misteri ritenuti più seri. Una nota di colore è data dai bambini che si usa ancora mandare vestiti da piccoli santi, a seconda di quello scelto per grazia ricevuta.
Come ogni processione, anche «u monde» si snoda con un incedere lento e cadenzato che conferisce ad ogni Santo un’aria solenne, ma che talvolta, quando è accentuato, può essere interpretato come fanatismo. Probabilmente quel modo di spostarsi è reso necessario dal ritmo da rispettare per sopportare meglio il peso e sostenerlo all’unisono, Inoltre, quei movimenti lenti e ritmici dovevano servire nei tempi antichi a scuotere l’animo dei peccatori e ad incitarli a ravvedersi e convertirsi.
IL RISCHIO DEL DESERTO
Molto è stato scritto e detto sulla religiosità popolare e sui modi di manifestarla da parte di studiosi appartenenti alle più disparate aree culturali. Non manca il punto di vista cattolico: la chiesa, infatti, proprio negli ultimi tempi ha rivolto una certa attenzione al problema della religiosità popolare.
Il link per scaricare l’articolo completo:
In prossimità del Triduo pasquale riproponiamo un canto popolare, ancora oggi assai diffuso in molti centri della Puglia e presente anche a Modugno, che racconta del dolore della Vergine Maria in prossimità della Passione di nostro Signore Gesù Cristo. La poesia in dialetto, con la traduzione a margine, dal titolo "Giovedì Santo", è tratta dall'archivio storico della nostra rivista pubblicata nel 1981 (Anno III, n. 2 - Maggio 1981) a firma della prof.ssa Anna Longo Massarelli nell'ambito della rubrica "A Medugne se disce adachessè". Buona lettura. - mp -
La somiglianza con le laudi umbre e toscane del ’200 appare chiara in questo canto, anche se la poesia in esso contenuta non raggiunge i vertici, per es., de « IL PIANTO DELLA MADONNA» di Iacopone da Todi.Le note che l’accompagnano hanno una solennità larga e grave, come si addice a un canto tragico. Lo sviluppo dei fatti è breve e su tutti domina il dolore della Vergine di fronte alla passione di Cristo. La laude inizia con Maria che, incamminandosi, si riveste del manto, secondo la usanza antica di coprirsi il capo, per strada e in segno di lutto. Ma ella è sola sulla via della croce: di tutti quelli che avevano seguito e osannato Gesù non c’è nessuno che possa accompagnarla. Ad un certo punto la scena si anima: san Giovanni è il primo personaggio che la Madonna incontra e che la chiama « madre », quasi a suggellare la sua partecipazione più ampia alla tragedia che sta per compiersi. Ed è lo stesso Giovanni che la guida alla casa di Pilato, dove Gesù è incatenato. L’azione qui diventa più rapida e il «tuppè tuppè » di Maria alla porta del procuratore romano è quasi il «tuppè tuppè » affannato del suo cuore che cerca Gesù. Infatti, come è piena di struggente e delicato dolore la risposta « ji so l’afflitta di Marie!» « L’afflitta » assume una proporzione enorme: non è Maria afflitta, ma tutta l’afflizione è Maria. Ed ecco al nostro sguardo si presenta non un Gesù eroico, ma un Gesù debole, bisognoso del conforto della madre a cui chiede di andare al «mesto» che forgia i chiodi, perché solo lei potrà ottenere che non siano tanto grossi e neanche tanto sottili per trapassare la sua carne in croce. Mi piace rilevare l’espressione « mesto ». È Gesù che parla e gli vien messo sulle labbra un termine italianizzato, come avviene quando il popolo si rivolge ad un « galantome » e si sforza di forbire il suo dialetto.Ad un tratto in questo scenario di dolore e di pietà appaiono due personaggi furenti contro la santità di Cristo: «la zègnera maledétte » e «u male latrane». L’una chiede una grossa quantità di chiodi per crocifiggerlo e l’altro aggiunge che gli stessi siano «spendate e grosse», perché possano trapassarlo con maggior dolore. Gesù maledice la prima e la condanna da quel momento ad essere apolide. La ferocia dei due si ripercuote sulla dolce e straziata Maria che non regge e cade trafitta dall’angoscia. Allora tutto l’universo si associa al suo dolore e scuriscono la luna, il sole e le stelle, perché rifulga solo la bellezza di madre Maria.Avrete notato che il brevissimo dramma ha un’architettura semplice; il tono e il linguaggio sono ingenui ed elementari, come si addice al discorrere del popolo, ma palpitano di un vasto dolore umano, che eleva la laude al di sopra dei suoi limiti letterari.
Anna Longo Massarelli
Riproponiamo una riflessione sulla "Pietà popolare nella Settimana Santa" tratta dall'archivio storico della nostra rivista, pubblicata nel 2003 (Anno III, n. 2 - Maggio 1981) a firma del prof. Raffaele Macina. Buona lettura mp
Non c’è dubbio che la Settimana Santa sia il momento più ricco ed intenso non solo di riti liturgici canonici, ma soprattutto di pratiche e culti ideati o semplicemente conservati dal popolo che, a dispetto del tempo, riversa in essi tanta parte della sua mentalità di lunga durata. Ed in effetti, nonostante sia stata denominata diversamente a seconda della sensibilità del momento storico (“Settimana grande o maggiore”, “Settimana d’indulgenza”, “Settimana di fatiche e di stenti”, “Settimana ultima” ed infine “Settimana Santa”), sempre essa ha visto una straordinaria partecipazione di popolo.
Il venerdì di passione, che precede la Domenica delle Palme, preannunzia la tragedia di Cristo con la processione dell’Addolorata, che rinnova l’eterno peregrinare della madre alla ricerca del figlio perduto. Un triste presagio non manca neppure nella domenica del trionfo, quando Gesù, già acclamato dalla folla, piange su Gerusalemme.
Molte le usanze della Domenica delle Palme che ancora oggi si rinnovano: in alcuni centri agricoli non mancano contadini che, dopo il rito religioso, si recano nei campi e, come atto propiziatorio, piantano la palma appena benedetta; radicato è ancora il pregiudizio che chi distrugga una palma benedetta sarà colpito da sicura disgrazia.
A Taranto, proprio il giorno delle Palme, si svolgono due aste per l’aggiudicazione dei santi da portare in processione: nell’oratorio della chiesa di S. Domenico si celebra la gara per l’aggiudicazione della Madonna Addolorata; nel palazzo della Provincia vengono contese le statue della processione dei misteri. Si tratta di un appuntamento solenne, al quale possono partecipare solo i membri delle confraternite di San Domenico e del Carmine che ambiscono tutti a conquistare il mistero di Cristo morto o quello dell’Addolorata.
Assai richiesta è anche la troccola, il cui suono sostituisce dopo la morte di Cristo quello delle campane: grazie ad essa, il confratello che se l’aggiudica riveste un ruolo particolare durante la processione dei misteri.
I primi tre giorni della settimana santa sono dedicati alla pulizia della chiesa, alla predisposizione del sepolcro, agli ultimi lavori per l’allestimento delle statue. Una cura singolare viene rivolta alla sistemazione intorno al sepolcro di vasi ricolmi di esili germogli di semi di grano, piantati all’inizio della quaresima e tenuti al buio. Un particolare che esprime il tipo di devozione popolare è rappresentato dai lavori di pulizia del “corpo” e di vestizione della Madonna Addolorata, rigorosamente riservati a ragazze vergini e nubili.
Tutto deve essere pronto per il giovedì santo, quando ogni fedele è obbligato a visitare sette sepolcri, numero che per la tradizione orfìco-pitagorica simboleggia il matrimonio e l’unione perfetta fra uomo e donna. Nel Salento, e in particolare nell’area della Grecia, si va recuperando negli ultimi anni un’antica tradizione, quella di “Santu Lazzaru”, sino a qualche decennio fa assai diffusa e praticata dal lunedì al mercoledì santo: gruppi di persone, per lo più composti da due giovani ed un anziano, vanno in giro e dopo aver cantato davanti ad ogni casa le strofe di “Santu Lazzaru”, tutte ispirate alle sacre rappresentazioni medievali della passione di Cristo, chiedono la questua. Diversi sono i centri pugliesi che, sempre all’insegna delle sacre rappresentazioni medievali, animano particolari versioni della Via Crucis: suggestiva quella di Ruvo, in provincia di Bari, che, con i suoi numerosi figuranti scalzi e vestiti con abiti d’epoca, avanza fra il suono cupo e sordo delle troccole.
Ma il momento culminante dei riti della settimana santa è dato dalle tante processioni dei misteri che sembrano unire le genti di Puglia in una comune atmosfera spirituale. Al proposito, è possibile scoprire in ogni paese, anche piccolo, veri e propri capolavori di arte povera e tradizioni del tutto particolari: dai 5 misteri di Molfetta ai 33 di Ceglie del Campo, dalle cinque croci di Vico del Gargano al Legno Santo di Bitonto; in ogni centro la solenne processione del venerdì santo mescola al sacro qualche aspetto profano che rinvia a leggende o a precisi momenti della propria storia.
Non c’è pugliese che non sia sensibile al fascino della processione dei misteri. Si tratta di un appuntamento a cui non si può mancare: il suo richiamo, forte e ancestrale, sospinge tanti emigrati a presentarsi puntuali il venerdì santo nei loro paesi per assistere a sera inoltrata e in alcuni luoghi anche nel pieno della notte allo snodarsi per le strade di Madonne, santi e soprattutto dei momenti della passione di Gesù che rinviano all’eterna lotta fra tenebre e luce, morte e vita.
Quello della processione dei misteri è per i pugliesi un momento di vita corale che, annullando le personali posizioni di fronte alla religione, manifesta la presenza di una radice comune; una radice antica che, a dispetto dell’opera nullificante della globalizzazione, rinvia a pratiche misteriche dell’area mediterranea e, in particolare, di quella magno-greca.
Già Plutarco, quasi 2000 anni fa, così rappresentava l’atmosfera grave e solenne delle processioni dei misteri, di ispirazione non cristiana, ancora assai diffuse nel mondo greco-romano nel primo secolo dopo Cristo: “Dapprima erramenti e giri affannosi, e in mezzo all’oscurità un vagare tormentoso e senza speranza di salvezza; quindi ogni cosa apparisce piena di dolore, di ribrezzo, di terrore, di sudore e di sgomento”.
Con quegli “erramenti e giri affannosi” si intendeva raffigurare la sofferenza di Demetra, sorella di Zeus e madre divina della terra e dei suoi frutti, che per nove giorni cerca invano la figlia rapita e involata da Plutone nell’Ade, l’eterno regno delle tenebre.
Ma Plutarco non si limita alla rappresentazione dell’atmosfera del primo momento della processione dei misteri e assai incisiva è la descrizione della fase finale: “Poscia sottentra una luce meravigliosa, ovvero accolgono lo sviato luoghi e campagne amene, piene di dolci suoni, di danze, di canti e di apparizioni belle e sacre”. Viene simboleggiata così la gioia incontenibile di Demetra che il decimo giorno non solo ritrova finalmente la figlia Persefone, ma ottiene da Zeus che ella viva nel regno delle tenebre per quattro mesi dell’anno, a partire dall’autunno, e sulla terra per i restanti otto, a partire dalla primavera.
È evidente nei due momenti delle antiche pratiche misteriche la volontà di simboleggiare l’eterno ritorno della vita e della morte e il loro continuo avvicendarsi, che è l’essenza stessa non solo del ciclo della natura e del lavoro dei campi, ma anche del destino dell’uomo che acquista significato unicamente nella prospettiva dell’immortalità. Per questo, è fondamentale aprirsi all’orizzonte dell’eternità impegnandosi nel culto di Demetra, al quale è necessario farsi iniziare per mezzo di speciali riti segreti e perciò misteriosi; riti che hanno senso solo all’interno di un gruppo o di una comunità e che, trascendendo l’intelligenza e l’uso vigile dei sensi, impongono all’individuo di abbandonarsi a precise pratiche cultuali.
Non è diffìcile scorgere ancora oggi gli echi degli antichi misteri. Un canto popolare ancora diffuso in molte zone della Puglia recita: Mo’se ne véne scevedì sande,/Madre Mari se métte u mande/e non avève che ce sci/e sóla sóla se ne partì/ e chiangéve per 1 suoi dolori/ che avéva pèrse il suo figliòle (Ora arriva giovedì santo,/ Madre Maria indossa il mantello/ e non avendo con chi andare,/ se ne partì sola sola/ e piangeva per i suoi dolori/ che aveva perso suo figlio). Come non vedere in questa immagine della ‘Madonna Addolorata che è centrale nei riti della settimana santa e nella processione dei misteri del venerdì santo il rinvio a Demetra che disperata e sola va in giro per il mondo alla ricerca della figlia?
Sino a qualche tempo fa, in alcuni centri della Murgia la processione dei misteri si dirigeva m campagna, dove m un clima di vibrante pathos la Madonna ritrovava suo figlio; la scena registrava la presenza di numerosi bambini vestiti da angeli che impugnavano panieri ricolmi di grano e di altri frutti della madre terra. Prima che la processione riprendesse la via del ritorno in città, il sacerdote benediceva i campi e le messi appena spuntate.
Ecco, l’essere membro di una comunità di iniziati ai riti misterici significava, e forse significa ancora oggi, non solo introiettare immagini che hanno un grande potere simbolico, ma essere convinti di meritare un lieto avvenire dopo la morte. Di riflesso, per i non iniziati si apre invece un destino di dannazione ad una pena eterna.
E forse ancora oggi, a proposito del radicamento delle processioni del venerdì santo, così capillarmente diffuse nei centri pugliesi, si potrebbe ripetere quanto afferma Sofocle: “Tre volte felici quei mortali, i quali hanno contemplato questi sacri riti, allorché tocca loro di scendere nell’Ade; per essi soltanto esiste nel mondo di là una vita, per gli altri non v’hanno che affanni e pene”.Non è diffìcile, dunque, riconoscere nello snodarsi lento e solenne delle processioni del venerdì santo le influenze delle pratiche misteriche assai diffuse nell’area magno-greca: siamo di fronte ancora oggi a riti serali e/o notturni che si svolgono fra il chiarore delle fiaccole e gli esaltamenti prodotti dalla musica; e, d’altra parte, i contenuti riguardano ancora la storia e la vita della divinità celebrata, in particolare le sue sofferenze, la sua morte e il suo eterno ritorno.
Ma, forse, il dato che conferisce alle nostre processioni dei misteri quel fascino che sempre si rinnova è legato al paradosso di un Dio che accetta di svuotarsi: Cristo, “l’unto del Signore”, si è spogliato della sua divinità e si è rivestito della natura umana, condividendone le gioie, le pene e persino la morte. Amare un “Dio impotente”, condividerne la parabola umana, riconoscere il dolore e le sofferenze come segni di identificazione della sua e, ancor più, della nostra vita sembrano essere i tratti caratterizzanti del venerdì santo.
Ed ecco, allora, quel pathos vibrante che accomuna le due ali di popolo mentre la processione, avanzando, rievoca e rinnova l’eterna passione del Dio impotente, dalla quale ogni uomo attinge nuova linfa per affrontare la sua quotidiana passione.
In effetti, in tutte le processioni del venerdì santo, che ancora oggi si svolgono nei numerosi centri della Puglia, sono immancabili quelle statue che ripropongono i momenti più salienti della divina tragedia: Cristo nell’orto del Getsemani che sperimenta la solitudine e l’abbandono persino del “padre suo”; San Pietro, ora assai contrito per aver rinnegato tre volte il maestro; Cristo flagellato alla colonna; la Maddalena e la Veronica, capaci di un gesto di solidarietà; la “nache” (culla), tutta infiorata, di Gesù morto e, infine, la Madonna Addolorata che in diversi centri chiude il corteo.
Presente è ancora la Croce con i simboli della passione: il gallo di Pietro, la lancia che trafisse il costato, l’asta con la spugna imbevuta d’aceto, la mano dello schiaffo, la scala e, infine, i più temibili strumenti di tortura: i tre chiodi, il martello e la tenaglia.
Non manca talvolta qualche bambino vestito da centurione per evocare l’età in cui fu compiuto il deicidio; un’età alla quale rinviano anche altri elementi che hanno finito coll’assumere un semplice valore simbolico. E’ il caso della bassa banda (flauto, piatti, tamburo e grancassa) con la quale si apre dappertutto la processione dei misteri: si intende così richiamare la pratica di Roma imperiale di far precedere sempre un corpo militare da tamburi e trombe. E, appunto, fu proprio una coorte romana, guidata da Giuda, a catturare Gesù nel Getzemani.
Ma, al di là della rievocazione, lo snodarsi della processione dei misteri offre oggi una occasione salutare e irripetibile nell’anno: in queste nostre città in cui il traffico finalmente tace del tutto e la stessa illuminazione pubblica è inibita per qualche ora, è possibile rivivere la dimensione del silenzio, da sempre propedeutica alla riscoperta della propria interiorità.
E, dopo i misteri, ecco prepotente il trionfo della vita, ecco il recupero, sempre più forte negli ultimi anni, de la scarcédde, questa specie di ciambella antica, adornata di un numero dispari di uova, che la ragazza nubile confezionava con le proprie mani e regalava con intento benaugurale al suo promesso sposo il dì di Pasqua.
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Il 10 Marzo del 1799 viene ricordato come l'assedio di Modugno da parte di un contingente di Sanfedisti che attacca Modugno, della Repubblica Napoletana, ma viene respinto. È una ricorrenza molto sentita in quanto legata all'apparizione della Madonna Addolorata che salvò la città dall'attacco nemico. La nostra rivista, nel febbraio 1982, ha pubblicato un interessante contributo sull'argomento, a firma del prof. Raffaele Macina, che si ripropone per la sua completezza di contenuti e riferimenti. A seguire il canto popolare - "U Nevendanove" - con la traduzione in calce a ciascuna strofa.
Buona lettura [mp]
Per la ricorrenza del 10 marzo abbiamo voluto pubblicare questo bellissimo canto popolare che in modo molto sintetico e con rappresentazioni figurate di autentica poesia illustra gli eventi di quella tragica giornata del 10 marzo 1799, quando Modugno subì un tentativo di assalto da parte dei carbonaresi e abitanti di altri comuni limitrofi.
In questo modo vogliamo come rivista non soltanto dare un contributo alla conoscenza del nostro passato, ma soprattutto ricollegarci alle nostre tradizioni storiche e popolari per una loro reale comprensione finalizzata alla riappropriazione di quei contenuti che noi riteniamo indispensabili per ristabilire una identità culturale e storica della nostra città.
Il canto popolare «U Nevandanove» è ormai ignoto ai molti e soltanto qualche vecchietta ricorda la sua musicalità malinconica, ma dolce. É un vero peccato che qui possiamo presentare solo il testo del canto, perché molto del suo valore artistico, della sua serena solennità si perde quando lo si dissocia dalle sue note. La melodia di questo canto provoca in chi lo ascolta un rassicurante atteggiamento di tranquillità e quasi di sicurezza interiore e manifesta una coralità popolare di convinzioni e di partecipazione che, sia pure per un attimo, ti solleva dalla atomizzazione del nostro vivere quotidiano.
I primi versi ci presentano subito la figura di un cantastorie che si presenta per quello che è: non un poeta, né un ignorante (terragne), ma soltanto un uomo di buon senso (de buène sendeminde) che con umiltà chiede un po’ di attenzione perché possa narrare un vero evento storico. E il popolo, incapace com’è di leggere e cosciente di poter apprendere qualcosa soltanto dal cantastorie e non dagli intellettuali del tempo, si raccoglie con curiosità intorno a lui.
Dopo la sua presentazione il cantastorie comincia subito la narrazione degli eventi storici: l’assalto del 10 marzo, operato da tanti piccoli paesi (le tanda paisotte che s’eran aunì erano Carbonara, Ceglie, Loseto, Bitritto, Bitetto, Valenzano, Casamassima, Noicattaro, Gioia, Noci).
È forse qui opportuno ricordare che nel 1799 tutto il Meridione era diviso fra città che avevano aderito alla Repubblica Partenopea, instaurata a Napoli dai circoli illuministici col sostegno militare dell’esercito francese, e città fedeli alla monarchia e alla casa borbonica. Modugno insieme a Bari, Altamura e soprattutto alle città costiere della provincia, aveva aderito alla Repubblica Partenopea e pertanto era continuamente minacciata da quei paesi che invece continuavano a prestare la loro fedeltà ai borboni e a lottare per un loro ritorno a Napoli.
Il 10 marzo del 1799, quindi, gruppi armati provenienti dai paesi citati insieme a donne, vecchi e bambini, tentarono di assalire e punire la Modugno giacobina, ma soprattutto di fare il saccheggio della città per ricavarne un ricco bottino.
Il canto è assai preciso nella narrazione degli eventi storici che presenta: è vero infatti che il gruppo più numeroso degli assalitori era formato dai carbonaresi e che furono questi, con alcuni bitrittesi e bitettesi, a devastare il convento degli agostiniani.
È vero anche che nel convento degli agostiniani essi ammazzarono a coltellate quattro giovani conversi che erano rimasti lì, mentre tutti gli altri frati erano rifugiati nella città murata.
È anche vero che gli assalitori avevano un cannone, ma le cannonate che riuscirono a sparare furono sette e non quattro come dice il canto, ed è anche esatto che una di queste cannonate si conficcò in un palazzo di periferia a ridosso delle mura che si sporgevano sull’attuale via X Marzo; il canto individua lo stabile colpito nel frantoio (u trappite) che si trovava a capo della citata via e che fu poi abbattuto qualche decennio fa. Attualmente sul terreno del vecchio frantoio, i cui proprietari esercitavano la compravendita all’ingrosso di tutti i prodotti agricoli di Modugno, insiste la villa dell’ing. Zaccaro.
Infine è confermato storicamente che gli assalitori si radunarono intorno alle mura di Modugno in mattinata e che il tentativo di assalto si protrasse sino a sera inoltrata, perché, come gli stessi carbonaresi dissero poi, «li era mancata la munizione di polvere e di palle»
Se da una parte il canto si rifa agli eventi storici, dall’altra però non fa alcun cenno alle loro cause reali: non v’è alcun riferimento alla Repubblica Partenopea, ai Sanfedisti, all’anarchia del 1799, alle bande dei delinquenti, al governo repubblicano dell’Università di Modugno.
Esso presenta una situazione metastorica, si distacca cioè dal periodo storico dell’evento che vuole narrare, e illustra un fatto peculiare di Modugno che può anche non aver data o, il che è la stessa cosa, può essere collocato indifferentemente in un secolo qualsiasi c anche nel nostro secolo.
L’atmosfera dell’evento, quindi, non è scandita dal tempo, si adatta a tutti i tempi, è universale, eterna, non assoggettabile a principi e interpretazioni della ricerca dello storico, ed essa è tutta finalizzata a presentarci un fatto straordinario e miracoloso che sfugge a ogni tentativo di spiegazione razionale: l’apparizione della Madonna Addolorata, «de chedde ca mors ne volse liberaje», (di quella che ci volle liberare dalla morte), come dice il canto. E quel «ci » rafforza ancora di più l’atmosfera metastorica, eterna e perciò religiosa del canto: la Madonna Addolorata, infatti, non liberò soltanto i modugnesi del 1799, ma volle liberare anche «noi».
In questa atmosfera le motivazioni dell’evento storico diventano semplici e si colorano di moralità e di autentica religiosità popolare. L’assalto è opera dei carbonaresi che inspiegabilmente si «arrabià gondrì de li medegnise» (si arrabbiarono contro i modugnesi).
Questa semplicità popolare crea ancora la quarta strofa: «Le sa ce tutte u uavévene lu avvise», (Lo sai se tutti avessero avuto l’avviso), nessuno sarebbe stato ucciso c tutti si sarebbero salvati. I fatti non andarono così: la notizia dell’assalto la ebbero tutti, e non poteva essere che così, visto che gli assalitori incominciarono a radunar si dalle prime ore del mattino e l’assalto vero c proprio incominciò alle ore 14.00 e che ancora la devastazione del Convento degli agostiniani si ebbe a pomeriggio inoltrato.
Il tempo perché ognuno, quindi, trovasse riparo fra le mura della città vi fu, in realtà i quattro conversi uccisi furono costretti a restare nel convento, perché furono impegnati a farvi da guardia dai frati e dal priore che invece preferirono mettere la pelle al sicuro, rifugiandosi fra le mura di Modugno.
Il canto, però, ignora tutto questo che ovviamente non poteva essere inserito in quella atmosfera metastorica e di serena religiosità e presenta l’uccisione dei conversi come qualcosa dovuto soltanto alla fatalità, che assolve tutti e acquieta le coscienze. È questo un tipico atteggiamento della nostra tradizione popolare che tende sempre a porre una pace formale e un formale spirito di riconciliazione fra le diverse parti, rinunciando così alla ricerca di colpe e responsabilità.
Addirittura anche agli assalitori la quarta strofa attribuisce un formale senso del pudore: i carbonaresi uccidono sì i quattro conversi, ma non hanno il coraggio di consumare il misfatto davanti agli occhi vigili della statua di San Nicola che stava in una nicchia davanti a loro. Ed essi allora mettono un panno davanti al santo, che così non assiste al barbaro eccidio di quattro giovani seminaristi indifesi, e soltanto dopo aver compiuto questo atto di riverenza religiosa possono ammazzare.
Ed ecco finalmente l’evento straordinario che dovrà essere raccontato ad un altro paese: l’apparizione della Madonna Addolorata. La Madonna appare sul muro del frappeto, dice il canto, e si alzava e si abbassava per invogliare quasi gli assalitori a colpirla e per attirare la loro attenzione su di sè, distogliendola dall’assalto della città. Qui la mentalità religiosa popolare crea una bella immagine: la Madonna, spesso presentata dalla cultura ecclesiastica come luce e perciò stella, raccoglie nel suo manto tutte le palle di fucile e di cannone e le trasforma in stelle, simboli di luce e di pace.
La cronaca di G. Saliani presenta l’apparizione della Madonna diversamente, affermando che i modugnesi furono «visibilmente difesi dalla Vergine Santissima, e da nostri protettori San Nicola Tolentino e San Rocco, come gli stessi nemici ne fanno fede» e che gli assalitori videro su un tetto proprio vicino a un punto debole delle mura «una Signora in bianca gonna, scapigliata, col fazzoletto alle mani, avendo a lato due guerrieri armati di fucile, che andavano dal lato del tetto all’altro, alle quali, e specialmente alla suppusta donna avevano tirate più e più fucilate, ne mai era loro avvenuto di colpirla, dicendole tali, e tante parole ingiuriose, che tremo a rammentarle, non che a lasciarle scritte».
Il canto presenta l’apparizione della Madonna come fatto certo, sul quale non è possibile avanzare alcun dubbio, al pari degli altri avvenimenti di quella giornata del 10 marzo, e qui la fermezza della fede popolare, ponendosi il problema di presenti e future critiche sul miracolo, vuole demolire ogni possibile dubbio, rifiutando con pacata fermezza la tesi di quanti vollero individuare in quella donna che si « alzava e si abbassava su quel muro » una vecchia fattucchiera (masciale).
Qui la forza della convinzione popolare è così corale che bastano poche parole per liquidare la posizione di quei pochi die, con fonato animo denigratorio, hanno osato mettere in discussione l’apparizione della Madonna Addolorata. Queste poche parole esprimono un distacco profondo dell’animo popolare da quei pochi che non sono tenuti in seria considerazione e sui quali il canto stende il manto dell’anonimato, (decèrene ca iève na vecchia masciale), che esprime il massimo del disprezzo e della differenziazione popolare.
I primi due versi dell’ultima strofa, infine, riecheggiano l’atmosfera tipica del partenio che, come è noto, era un componimento lirico tanto caro alla poesia greca destinato ad essere cantato da un coro di fanciulle in onore di una dea. Infatti il canto, rivolgendosi alle donne madri, le invita a mandare in chiesa le loro figlie nubili (vacandì), che qui svolgono il ruolo delle vergini del partenio, perché onorino e chiedano perdono alla Madonna per le colpe commesse da tutta la comunità modugnese.
C’è nella chiusura del canto la tradizionale convinzione popolare che interpreta un evento funestro, nel nostro caso l’assalto del 10 marzo, come conseguenza e giusta punizione divina dei peccati commessi. Le fanciulle modugnesi, quindi, chiedendo perdono e onorando la Madonna, svolgono un ruolo sociale e religioso utile a tutta la comunità, perché intercedono la continua protezione della Madonna su Modugno, allontanando così dalla città il ripetersi di eventi funesti nel futuro.
Altamente poetica, quindi, la conclusione del canto soprattutto per l’evocazione di temi classici che sembrano quasi voler essere confermati dal costrutto latineggiarne dell’ultimo verso (de chédde ca morse ne volse liberajei).
prof. Raffaele Macina
A vu signure ci adénze me date,
u nevandanove ve vogghje fa sendì,
ce nan ire pe la Madonne Addelorate,
Medugne aveva sta tutt’abbattute.
A voi signori se mi date retta,
il novantanove vi voglio far sentir,
se non fosse stato per la Madonna Addolorata,
Modugno sarebbe stato tutto abbattuto.
Nan sonde ni puéte manghe terragne,
Gesù m’a date ne buène sendeménde,
Gesù m’a date ne buène sendeménde,
pe fa sendì la storie a chissa gende.
Non sono né poeta e neppure ignorante,
Gesù mi ha dato un buon sentimento,
Gesù mi ha dato un buon sentimento,
per fare sentire la storia a questa gente.
Nuje alle dèsce de marze furema assaldate,
e tanta paisotte s’ir an aunì,
gondrì de li medegnise si arrabbià,
scennì fescenne nande a le Carnalise,
e a Sanda Jestine forene le prime accise.
Noi il dieci marzo fummo assaliti,
e tanti piccoli paesi s’erano uniti,
contro i modugnesi si arrabbiarono,
andammo fuggendo davanti ai carbonaresi,
e a Sant’Agostino furono i primi uccisi.
Le sa ce tutte u uavévene lu avvise
e povere l’aide ci forene angappate,
e povere l’alde ci forene angappate,
se ne fescèrene suse come rabbiate.
Lo sai se tutti avessero avuto l’avviso
e poveri gli altri che furono presi,
e poveri gli altri che furono presi,
se ne fuggirono sopra come cani arrabbiati.
Sanda Necole jinda nu nicchie stève
e chi nu panne nande già chemegghiare,
e chi nu panne nande già chemegghiare,
’nge ne chendarene dèsce cherteddate.
San Nicola in una nicchia stava,
e con un panno davanti lo coprirono,
e con un panno davanti lo coprirono,
gliene contarono dieci coltellate.
E a nalde pajise u uavèvene ce rechendaje,
sendite chèssà storie quande jè pelile,
sparorene finghe a quatte cannenate,
facerene lu pertuse a lu trappite.
E a un altro paese avevano di che raccontare,
sentite questa storia quant’è pulita,
spararono fino a quattro cannonate,
fecero un buco al trappeto.
Na donne ca ’nge stave sopra quel mure
e chedde ca s’alzave e s’abbasciave,
e chedde ca s’alzave e s’abbasciave,
decèrene ca ieve na vecchia masciale.
Una donna che stava su quel muro
e quella che si alzava e si abbassava,
e quella che si alzava c si abbassava,
dissero che era una vecchia fattucchiera.
Guardate quande stèlle tène jinda lu mande
e chidde ièvene le palle ce recevève,
la Madonne le recevève cu mandesine
e quande pall’avève l’ammenave ‘nzine
Guardate quante stelle ha nel manto
e quelle erano le palle che riceveva,
la Madonna le riceveva col manto
e quante palle aveva le menava in grembo.
Da la matine stèttere fing’a la sère,
mo ’ngi’arrevaje lore de vindunore,
iunì che l’alde si la trascherrève:
ame fernute la menizione.
Dalla mattina stettero fino alla sera,
quando arrivò l’ora ventuno,
uno con l’altro parlava:
abbiamo finito le munizioni.
Vu donne ce tenite le file vacandì,
mannatele jinda la chièse a cercà perdone,
’nge stù Matra Marie Addelorate,
de chedde ca mors ne volse libèraje.
Voi donne se avete le figlie nubili,
mandatele nella chiesa a chiedere perdono,
ci sta Madre Maria Addolorata,
quella che dalla morte ci volle liberare.
Disegni Amina Pepe - Ricostruzione eventi del 1799
Altare dedicato a Maria Santissima Addolorata
Chiesa Matrice di Modugno
Una relazione del Sindaco afferma che durante l’anno lo stato di salute dei bambini modugnesi è stato particolarmente negativo, poiché essi sono stati in massa «afflitti da difterite e morbillo».
La rivista “Nuovi Orientamenti” augura ai propri lettori, nonché a tutta la cittadinanza, gli auguri più sinceri per un sereno anno nuovo, sperando che possa portare pace e serenità.
Il 2023 lo dedichiamo a Tommaso Di Ciaula, con l’intento di richiamare l’attenzione sulle sue opere, così come è stato fatto con la pubblicazione del libro “Tommaso Di Ciaula tra fabbrica e poesia” a cura del prof. Serafino Corriero (Edizioni Nuovi Orientamenti, Modugno, 2022 pp. 175).
Buon anno a tutti
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